Luca Zaia ha trionfato. Ma ieri sera, guardando i dati provvisori che gli assegnavano percentuali superiori al 75 per cento (con la lista personale che incamerava il triplo dei voti rispetto alla Lega per Salvini premier) ha detto a un suo stretto collaboratore «di essere molto felice, ma anche preoccupato».

Il governatore del Veneto riconfermato per la terza volta «teme che, da oggi, tutti penseranno che è lui il vero rivale di Matteo», chiosano da Palazzo Balbi. «Sono mesi che i giornalisti ripetono che in caso di vittoria schiacciante Zaia proverà a conquistare la guida del partito. Sono sciocchezze: ha vinto, ma ci ha ripetuto che lui resta un soldato semplice. E che intende onorare il suo patto con i veneti».

Excusatio non petita, sospetta pure qualche dirigente salviniano a Via Bellerio. Ma chi conosce bene Zaia sa che l’ex meccanico che ama i purosangue, anche davanti al declino politico del segretario, non si candiderà come nuovo capo della Lega. Non solo perché non vuole mettere a rischio il rapporto con i milioni di elettori veneti che hanno certificato definitivamente la sua ascesa a leader nazionale. Ma anche perché sa bene che, provasse a fare a spallate con la corrente sovranista autoproclamandosi come alternativa a Salvini, rischierebbe di bruciare in un amen il consenso accumulato.

«Non è nella natura di Zaia affrettare il corso degli eventi», spiega un assessore di Venezia che lo conosce da tempo. Il Doge è infatti un temporeggiatore. Un mediatore che si muove solo quando è sicuro di fare la mossa giusta. Nell’immediato futuro, dunque, la strategia politica di Zaia è semplice: governare la sua regione, senza nemmeno dare l’impressione di volersi giocare una partita nazionale. Solo se Salvini dovesse improvvisamente fare un passo indietro (per scelta personale, per crisi politica irrefrenabile o nuovi affondi delle procure), e nel contempo i dirigenti leghisti gli chiedessero di prendersi responsabilità politiche nazionali, solo allora potrebbe pensare davvero ad accettare la leadership della Lega. «In primis deve coaogularsi un consenso ampio sul suo nome. Poi dovranno convincerlo che è la scelta giusta: quando Umberto Bossi lo chiamò per fare il ministro dell’Agricoltura gli spiegò che lo voleva su quella poltrona perché doveva curare gli interessi degli agricoltori del lombardoveneto. Due anni dopo, nel 2010, accettò la candidatura alle elezioni regionali solo quando gli dissero che era l’unico a poter dare equilibrio all’alleanza tra Lega Nord, Liga veneta e Forza Italia».

Luca Zaia con Matteo Salvini, durante la riunione degli amministratori e dei governatori della Lega (Foto LaPresse)

La crisi del sovranista

Vedremo. Di certo Zaia da ieri ha sulle sue spalle tutte le contraddizioni postelettorali del Carroccio. Spaccato tra la corrente calante di Salvini, che ha perso la scommessa toscana, e quelle più moderate incarnate dal governatore e da Giancarlo Giorgetti, che sogna, da tempo, un partito meno legato ad Victor Orban e a Vladimir Putin, a retoriche antieuropee e scevro da linguaggi estremisti. L’ex sottosegretario crede infatti, come l’alleato Berlusconi, le cancellerie di Parigi e Berlino e un pezzo del deep state nazionale, che fintanto che Salvini rimane indiscusso Capitano del partito la Lega abbia poche chance di tornare a palazzo Chigi e al governo del Paese.

Zaia da ieri è «preoccupato» proprio per questo. Lo voglia o meno, è lui il leghista preferito di chi pensa che il primo partito italiano abbia bisogno di recuperare un’agibilità politica piena, perduta dopo le politiche antimigranti proposte da Salvini al Viminale, le cene all’hotel Metropol di Mosca dei suoi fedelissimi e le sparate del Papeete. Il governatore del Veneto che vive tra Venezia, la casa di San Vendemmiano e il suo paesino d’origine, Godega di Sant’Urbino, incarna infatti un leghismo che per radici sociali e culturali è distante anni luce da quello muscolare e nazionalista del segretario.

Votato sia dagli operai di Marghera sia dalla borghesia di Verona, dalle partite iva di Belluno e dagli industriali iscritti alla Confindustria di Vicenza, Zaia è considerato un discendente spurio della Liga Veneta, un movimento che mescolava autonomismo radicale con le tradizioni democristiane di una regione cattolica e “bianca”, tipiche di quel pezzo della pianura padana.

Qui gli artigiani che chiedono meno tasse e i professionisti che votano Lega da 30 anni parlano una lingua diversa non solo dalla Lega lombarda dei milanesi e dei varesotti (con cui Zaia, volesse diventare leader, dovrebbe venire a patti), ma pure da quella sovranista di Matteo. Il mantra tra Rovigo e Padova è quello del federalismo e dell’autonomia, non certo quello del nazionalismo o dello stato centralista. Gli eroi del pantheon in Veneto sono i repubblicani della serenissima, non Marine Le Pen o Donald Trump. La propaganda sulla sicurezza e l’immigrazione selvaggia conta, ma assai meno della riduzione delle tasse, dell’indipendenza fiscale da Roma, del buongoverno che porta schei nelle tasche di un territorio che - nonostante la crisi - resta tra i più ricchi d’Europa.

Zaia non ha mai lisciato il pelo della retorica populista che - dopo la nascita del Conte bis e l’arrivo della pandemia di Covid 19 - è in verticale crisi di consenso. L’Avversario riluttante ha infatti preferito, da amministratore, usare toni diversi e politiche pragmatiche. L’emergenza portata virus ha evidenziato in modo mascroscopico le differenze tra le correnti: da un lato, la Lega della catastrofe che governa in Lombardia, quella di Salvini e del suo fedelissimo Attilio Fontana, che ha sbagliato ogni mossa ed è crollata nei sondaggi. Dall’altro, il partito che funziona, che ha il volto impomatato del presidente veneto ieri rieletto.

(Foto LaPresse)

Il partito del pragmatismo

«Zaia premier? Luca è una risorsa per tutto il Paese, ma non ora, in futuro...» ha detto Salvini a chi ipotizzava, qualche mese fa, un nuovo governo di unità nazionale. Il capo della Lega sperava che il Doge vincesse, ma con uno scarto più ridotto di quanto registrato ieri dalle prime proiezioni. Non solo: il trionfo della lista personale è uno schiaffo a quella “ufficiale”, che ha il nome Salvini nel simbolo.

L’entità del trionfo ha superato ogni previsione. I piccoli imprenditori della regione hanno premiato i risultati del governo Zaia, vero. Ma hanno deciso di punire Salvini e la “sua” Lega anche per le promesse non mantenute ai tempi del Conte I. Se la flat tax sbandierata per mesi non è mai stata approvata, il ceto produttivo veneto è rimasto deluso pure dai miliardi stanziati per il reddito di cittadinanza pretesi dall’allora alleato grillino («in Veneto si fa fatica a capire che uno che non lavora venga anche pagato», disse l’allora segretario regionale della partito Gianantonio Da Re) o dei denari spesi per i prepensionamenti di Quota 100. La distanza tra le liste che portano i nomi di Zaia e Salvini sono il segnale tangibile del malcontento nei confronti delle politiche del segretario.

Ora è presto per fare vaticini. Ma i risultati delle elezioni regionali raccontano che la narrazione usata dal leader nazionalista non sembra coincidere più con lo spirito del tempo. E dimostrano che esiste (e stravince) una Lega alternativa, insofferente alla retorica di Bibbiano e attenta, più che alle alleanza con Casa Pound e dalle presunte invasioni di africani, al buongoverno dei territori, alle tasse e al Pil. Lo scontro tra le due anime sarà sempre meno evitabile.

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