Luigi Zanda, lei ha incontrato Mario Draghi di recente. Von der Leyen gli ha affidato un incarico sulla competitività e la premier Meloni ha detto che «potrebbe avere un occhio di riguardo per l’Italia». È così?

Su Mario Draghi naturalmente non ho nulla da dire, tranne che Ursula Von der Leyen ha fatto la scelta migliore. Sulla premier e l’Europa invece ci sarebbe molto da dire, a cominciare dalla grande divisione fra chi vuole l’Europa confederale degli stati e chi vuole una federazione europea. Meloni è per un’Europa degli Stati nella quale, come vediamo con le migrazioni, l’Italia è un vaso di coccio fra i vasi di ferro. L’Europa federale e gli Stati uniti d’Europa dovrebbero essere la grande battaglia del Pd.

Meloni arranca su molti dossier, dagli immigrati alla manovra. Ma le opposizioni non ne traggono benefici.

Dopo un anno, il governo è ancora in luna di miele con i suoi elettori. Vedrà che fra poco nemmeno l’occupazione della Rai lo salverà dallo scontento popolare.

Alla festa di Ravenna Elly Schlein ha promesso una conferenza organizzativa. Un rito da prima repubblica, un contentino per i malpancisti, o l’ammissione che nel Pd qualcosa non va?

È una scelta importante. Ma a condizione che sia fatta sul serio. Che inizi presto, che apra un dibattito in profondità sulla forma partito. E che si faccia in presenza. Basta zoom: delle Agorà di Enrico Letta, prevalentemente online, sono rimaste ben poche tracce.

Riflettete sulla forma-partito da decenni: in concreto che significa?

Prima di tutto significa rispondere alla domanda più importante: vogliamo mantenere il partito o trasformarci in un movimento? Io mi sento profondamente democratico, sono iscritto al Pd ed ho contribuito a fondarlo. Penso che il Pd debba abituarsi ad ascoltare opinioni diverse e restare unito; se chi la pensa diversamente dalla segretaria se ne va, come hanno fatto i trenta liguri, la democrazia va a farsi benedire. D’altro canto quando la segretaria dice di chi se ne va aveva «sbagliato indirizzo» e «resiste al cambiamento» usa espressioni non da partito democratico ma da partito padronale. Ecco cosa intendo per forma-partito. Il rischio è che dopo Forza Italia, Fdi, M5s e i partitini personale, persino il Pd di Elly Schlein diventi un partito del capo.

Schlein riunisce segreteria e direzione come gli altri segretari. Non è che è il vero problema per una parte di voi è che Schlein ha spostato il Pd a sinistra?

Questa storia mi ha stancato. Il Pd è di sinistra, o non è. Certo bisogna riflettere cosa vuol dire essere di sinistra nel ventunesimo secolo, compreso il tema del come si governa un partito veramente democratico. Annunciare l’adesione a un non precisato referendum sul jobs act senza aver prima ascoltato gli organi del Pd, non è da partito democratico. Nemmeno frenare sulle spese militari senza aver sentito il partito e senza curarsi degli impegni dell’Italia. Il tema non è se si è più o meno di sinistra, ma il modo affrettato con cui vengono trattate questioni delicatissime. Il Pd e la sua segretaria ritrovino il gusto del confronto su problemi che hanno soluzioni complesse. Se non si chiarisce questo nodo, la politica del Pd continuerà fatalmente a scivolare verso la mera comunicazione. E abbiamo già dato.

Ma se negli organismi interni il vizio dell’unanimismo di facciata resiste, è colpa di Schlein o del gruppo dirigente?

Cercare il confronto, sollecitarlo e alimentarlo, è responsabilità della segretaria. Da molti anni la segreteria del Pd è poco più che uno staff, salvo qualche eccezione. La direzione non è adatta al dibattito, per eccesso di componenti: cento persone che possono parlare per cinque minuti ciascuno, siamo seri, che confronto è? E non parliamo dell’assemblea. Nei partiti ci si scontra negli organi. Bisogna cambiare l'organizzazione: se la segreteria deve contare, non può essere uno staff, e la direzione deve essere ridotta nei numeri per affrontare un dibattito vero.

Ma fuori dalle sedi di partito i dissensi si manifestano. È un male per il Pd?

Se si discute solo sui giornali è un male. Discutere significa riflettere sui problemi, non liquidarli. Sulla gravidanza per altri bisogna discutere, sul jobs act anche, e così sulle armi. Fa male al Pd che la segretaria annunci la sua posizione, che dovrebbe essere quella del partito, prima della discussione interna. Anche perché non bastano i titoli degli obiettivi – diritti sociali, sanità, salari e sicurezza – serve dire come possono essere raggiunti. Per essere credibili bisogna proporre il salario minimo ma anche indicare la strada per creare ricchezza. Senza questa profondità non si è sinistra di governo, ma sinistra di slogan.

Non è che ha nostalgia dei caminetti, e delle consultazioni dei capicorrente e dei big?

A Ravenna Schlein ha citato Aldo Moro: «Ricordiamoci da dove veniamo e quali sono le nostre storie». Nei partiti, come per ciascuno di noi, la memoria è gran parte della nostra identità. Parlare di caminetti è offensivo. Ci dobbiamo ricordare delle nostre storie non per conservare il passato ma per scegliere cosa del nostro pensiero merita di continuare a vivere. Ogni segretario sceglierà il modo con cui conserva, rispetta e innova. In altre stagioni il confronto fra dirigenti era più frequente. Tra i caminetti e il partito del capo, in cui solo il capo dà la linea, c’è di mezzo il mare.

Si riferisce anche all’appoggio di Schlein a Marco Cappato a Monza?

Sulla persona Cappato e sulle sue battaglie, nulla da dire. Su un’indicazione arrivata dalla segreteria all’ultimo momento ho molte riserve. 

Per Schlein le europee sono il banco di prova?

No, di qui al 2027 ci sono anche molte regionali e amministrative. Ma per le europee deve darsi un obiettivo. Quando ha vinto il congresso i suoi sostenitori parlavano del 30 per cento. È un fatto che con il 20 non possiamo essere il partito che amalgama la coalizione alternativa alle destre. Il Pd deve rinforzarsi e per farlo deve lavorare su tre fronti: organizzazione del partito, pensiero, e una leadership che sappia interpretare il 30 per cento cui aspira. Le alleanze verranno da sé. Intrecciare la partecipazione alle feste degli uni o degli altri non è risolutivo. La strada è avere un Pd più forte.

Al momento i sondaggi danno il Pd inchiodato intorno al 20 per cento.

Credo poco ai sondaggi. Ma dopo la batosta di Renzi alle politiche, il Pd si è assestato fra il 19 e il 20 per cento. L’unico passo avanti lo abbiamo fatto alle europee del 2019, quando abbiamo preso un sempre risicato 22,7. Il salto che ci aspettavamo, anche dopo il ritorno nel Pd di Art.1, ancora non c’è stato. Ma la riorganizzazione del partito può essere una buona chiave. Naturalmente per le europee bisogna fare attenzione alla composizione delle liste: non servono candidati di immagine, servono candidati politicamente affidabili. E serve una campagna su grandi temi, come l’Europa, tema che va affrontato in profondità.

Gli attacchi a Gentiloni, commissario impeccabile, sono volgari e confermano che la destra vuole un’Europa degli stati. Sull’Europa il Pd deve sferrare una grande campagna. A Meloni va ricordato che sull’immigrazione non è stata in grado a trovare alleati. Anche l’obiettivo del due per cento del Pil per le spese militari, in vista dell'esercito europeo, è un tema gigantesco: perché per un esercito europeo serve un parlamento europeo con pieno potere legislativo, un governo democratico dell'Europa. E una politica estera. E poi un esercito europeo elimina l’esercito nazionale? Le questioni che attengono alla sicurezza nazionale sono possono essere liquidate con una battuta su un palco.

Se il Pd alle europee non andrà troppo oltre il 20 per cento, si riaprirà una discussione sulla leadership?

Mi auguro di no, ma certo una discussione politica seria si dovrebbe aprire.

Fa bene Schlein a lanciare una piazza sulla sanità, anche se le altre opposizioni non aderiscono?

Fa benissimo a concentrarsi sulla sanità. Una manifestazione si fa se si è sicuri di convocare molto popolo. Non avrebbe molto senso indirla e poi dover pensare in quale punto della piazza sistemare il palco per rimpicciolirla e farla sembrare più piena.

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