La Repubblica parlamentare è a rischio, la maggioranza propone soluzioni alla crisi del sistema italiano che non risolveranno il problema della governabilità: basta guardare alla Francia. L’ex senatore Luigi Zanda svolge un’analisi molto severa sulla premier Meloni tornata leader di partito. E avverte la “sua” sinistra: non chini il capo, ma non si arrocchi sull’Aventino.

Presidente Luigi Zanda, all’Italia servono davvero le riforme costituzionali annunciate, anzi brandite dalla destra?
Il sistema è in crisi, a cominciare dal bicameralismo paritario, la necessità di dare più forza alla figura del presidente del Consiglio è reale. Quindi sì, alcune riforme servono. Ma i problemi delle democrazie non si sono mai risolti solo con interventi sulle istituzioni. Per di più se per garantire la governabilità, come dice Giorgia Meloni, bisogna snaturare la repubblica parlamentare per sostituirla con una repubblica presidenziale, il rimedio sarebbe peggiore del male.

Perché?
Giorni fa in un bell’articolo su Domani di Marco Damilano erano riportati pensieri di Aldo Moro, che già nel 1978 ricordava che la malattia italiana non era la forma parlamentare della Repubblica ma la crisi grave del sistema politico e dei partiti. All’analisi perfetta di Moro posso solo aggiungere che la nascita dei cosiddetti movimenti, sull’onda del populismo, ha aggravato il problema. Meloni dovrebbe ricordare che tutti i sessantotto governi che l’Italia ha avuto dal ‘46 ad oggi non sono caduti soprattutto per manovre e dissidi politici. Lo confermano persino gli inciampi del suo governo che non vengono né dalla Costituzione né dall’ampiezza della maggioranza ma dalle tensioni della coalizione. E lo confermano, anche con più evidenza, le difficoltà dei presidenzialismi americano e francese. Quando il sistema politico è fragile non c’è presidenzialismo che tenga. I mali della democrazia non si guariscono con l’ingegneria istituzionale, bisogna entrare nella carne del sistema politico.

E come si entra nella “carne” del sistema politico?
È molto più difficile che modificare la forma di governo prevista dalla Costituzione. Ma se vogliamo far crescere la democrazia dobbiamo provarci. È una cura lunga. Il primo rimedio è più scuola e più cultura. Lo ripeto: più scuola e più cultura. Bisogna aiutare l’opinione pubblica a capire che chi offre soluzioni semplici a problemi complessi, sia dell’Italia che dell’Ue, la sta ingannando.

Combattere il populismo: è un vasto programma.
Intanto serve una buona legge elettorale. Fin qui in un modo o nell’altro anche le nostre leggi elettorali maggioritarie hanno aiutato la frantumazione del sistema politico. Troppo spesso il metodo di Ghino di Tacco ha prevalso rispetto al metodo di Togliatti e De Gasperi, di Moro e Berlinguer. C’è chi ha preferito la spinta a favorire la frantumazione del sistema politico per dare un valore aggiunto alle piccole formazioni indispensabili ad una maggioranza. In Italia serve una legge proporzionale con uno sbarramento veramente alto. Poi una legge sui partiti: è uno scandalo che dopo 75 anni non sia stato attuato l’art.49 per la volontà di partiti che temono la democrazia interna. E serve il ripristino del finanziamento pubblico. Noi del Pd abbiamo sbagliato a abolirlo. Il finanziamento pubblico è finanziamento della democrazia. Naturalmente con tetti ragionevoli e controlli severi.

Ma queste riforme non sono all’orizzonte. All’orizzonte c’è il presidenzialismo o premierato a elezione diretta. Il suo discorso è fuori tempo massimo, non crede?
E allora torniamo a Moro. Vogliamo mettere mano alle riforme istituzionali? Ma non può essere toccata la forma parlamentare della Repubblica, che peraltro penso non si possa modificare utilizzando l’articolo 138 della Costituzione. Ma contemporaneamente, ed è anche negli interessi della maggioranza, concentriamoci sulla debolezza del sistema dei partiti. Il sistema politico è stato colpito dai tre grandi fatti che hanno segnato la storia del paese: l’omicidio di Moro, il crollo del Muro di Berlino e Tangentopoli. Le scorciatoie non servono, anzi possono solo complicare le cose. Guardi, lo penso anche del mio partito: le nostre primarie andrebbero meglio regolamentate, anche se sono un sistema migliore della nomina del segretario da parte di un sinedrio. Ma con tutto il rispetto per le mozioni congressuali, compresa quella che ha vinto, il voto delle primarie non è sufficiente a risolvere il ritardo accumulato nel Pd sulla definizione della sua identità e della sua linea politica. Se potessi dare un consiglio a Schlein, suggerirei di riprendere, come aveva promesso, la riflessione sull’identità e sulla forma partito. Se il Pd non si chiarisce le idee su sé stesso altri democratici se ne andranno via. Certamente non io, ma altri.

La destra è ancora possibilista sul premierato: ancora non dice apertamente che cambierà la forma parlamentare.
Le faccio un esempio: il parlamento potrebbe sfiduciare un presidente del consiglio eletto dal popolo e mandarlo a casa? Certamente no, perché l’elezione popolare presidenzializza comunque il sistema.

La destra non dice neanche che vuole toccare i poteri del presidente della Repubblica. È un’ipocrisia?
È più che un’ipocrisia, è una falsità. La soluzione che tocca meno il presidente della Repubblica è il cancellierato, che definisce il potere del premier sui ministri e non tocca il Colle. Il premierato o il sindaco d’Italia è la peggiore delle soluzioni. La Repubblica parlamentare perderebbe comunque i suoi connotati fondamentali.

Perché la destra vuole diminuire i poteri del Colle?
Non lo so, ma sbaglia. Serve l’equilibrio del sistema e dei poteri. La scelta va fatta chiara, e va dichiarata. Con l’elezione diretta tutto il sistema salta e si passa a una repubblica presidenziale. In ogni caso. La destra brandisce da sempre la bandiera del presidenzialismo. Forse Meloni sarà infastidita di dover rinviare di giorno in giorno le nomine, e pensa che possa risolvere con una elezione popolare. Ma non è così. I problemi politici si risolvono politicamente, non con un colpo di mano. In Francia Macron ha proposto una misura ragionevole sulle pensioni, forse persino necessaria, e nonostante tutti i suoi poteri, il sistema politico francese – partiti, opinione pubblica – si sono rivoltati. Eppure lì c’è un sistema definito, che l’Italia ha invidiato per tanto tempo. Meloni, oltre a litigare con i ministri francesi, rifletta su quel modello: che dimostra che il problema non è l’assetto istituzionale, è il sistema politico.

La destra potrebbe approvare la riforma a maggioranza qualificata, quindi senza il referendum confermativo?
Quando abbiamo introdotto il maggioritario, abbiamo sbagliato a non modificare i quorum, certamente quello di due terzi per cambiare la Costituzione. Oggi, se passasse così, la riforma sarebbe definitiva. Eventualmente bisognerebbe sollevare la questione che l’art.138 della Costituzione non può essere usato per una modifica della natura della Repubblica in senso presidenziale.

Si rischia uno scontro fra istituzioni?
Non è escluso, ma è presto per dirlo.

Meloni dice che se le opposizioni collaborano, bene, altrimenti andrà avanti da sola. Il Pd deve collaborare?
Dicendo così Meloni corre un brutto rischio. Quando ha giurato sulla Costituzione al Quirinale, forse non lo sa, è passata dal ruolo di capo partito a quello di statista. Se dice che vuole fare un’elezione diretta del presidente “purché sia”, torna al ruolo di capo partito e abbandona quello di statista. Quanto al Pd, se collaborare significa esprimere le proprie opinioni e lottare perché prevalgano, il Pd deve collaborare. Se collaborare significa dover chinare la testa, il Pd non deve collaborare. Ma anche se non collabora, mai deve ritirarsi sull’Aventino.

Durante la campagna elettorale Enrico Letta è stato sbeffeggiato perché parlava di un rischio di questa natura nella legislatura entrante. Aveva ragione?
I programmi elettorali non sono il Vangelo. Quando assumi la carica di presidente del consiglio non sei più il rappresentante di una parte, ma di tutti. È una regola generale, vale anche per la segretaria del Pd: Schlein ripete di aver vinto con la sua mozione, ma ora è segretaria anche di quelli che hanno votato la mozione di Stefano Bonaccini, che sono il 52 per cento del partito. E deve tenerne conto.

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