Il leader della Cgil Maurizio Landini arringa l’assemblea dei delegati a Bologna confermando la sua linea per questa campagna elettorale: il sindacato è una cosa e la politica un’altra. La Cgil non si schiera, non porterà acqua al mulino del Pd.

Ma, mentre rilancia le sue parole d’ordine con il solito tono furente di quello che gli hanno appena graffiato la macchina, butta lì un concetto terrificante: se l’Italia è il paese che sta per consegnarsi alla neofascista Giorgia Meloni, anche il popolo della Cgil è su quella china. Ed è per questo che la Cgil non si schiera.

I suoi iscritti ormai votano a 360 gradi su tutto l’arco politico, senza accettare consigli dal sindacato. Da trent’anni gli operai Cgil votano (anche) a destra, ma i dirigenti rimanevano compatti nel loro ruolo di cinghia di trasmissione della sinistra. Adesso il liberi tutti attraversa tutta la struttura.

E adesso Landini ammette che, tra i poveri che se la prendono con quelli ancora più poveri, ci sono iscritti alla Cgil. Quanti degli oltre cinque milioni di iscritti alla Cgil sono reazionari e razzisti? A giudicare dal tono di Landini, non pochi: «Non abbiamo bisogno di aumentare divisioni e diseguaglianze, se ci pensate questo è il nostro problema, non siamo mai stati tanto divisi, frantumati e contrapposti come adesso. Lo dico in modo chiaro e molto secco, dobbiamo imparare che il nostro problema non è il lavoratore di fianco a noi, non è il colore della pelle delle persone, il nostro problema sono quelli che ci sfruttano tutti assieme e ci mettono in competizione gli uni con gli altri».

Non volere e non potere

A dispetto delle lagne provenienti dal Pd, Landini conferma la sua linea: non ci sono truppe scelte pronte a togliere le castagne dal fuoco a Enrico Letta, un po’ perché la Cgil non vuole, ma soprattutto perché non può. Al contrario, l'unica speranza di Landini è che la Cgil continui ad avere un po’ di forza nella società e nei luoghi di lavoro facendo leva sulla situazione che è venuta a crearsi negli ultimi anni: operai che conducono lotte sindacali insieme in fabbrica e che fuori di lì votano chi per Fratelli d’Italia, chi per Unione popolare, chi per il M5s e chi per il Pd.

Molti, i più anziani, votano FdI e Lega pensando che renderanno più facile andare in pensione, poi ci sono quelli che votano M5s o Unione popolare pensando che il Pd è il partito del Jobs act e del precariato, oltre che della legge Fornero. È come se davvero per i lavoratori destra e sinistra non esistessero più, o più precisamente è come se esistessero solo dentro la fabbrica.

Landini prende atto di questa deriva della storia e la asseconda, agevolato anche dalla sua biografia: è il primo leader della Cgil che si è spostato direttamente dalla fabbrica al sindacato senza passare dalla obbedienza politica. E quindi lo dice chiaro, come piace a lui, che per la Cgil i partiti sono tutti uguali: «Non solo negli ultimi anni il mondo del lavoro, le lavoratrici e i lavoratori, i precari, i giovani non sono stati ascoltati. Ma addirittura le politiche fatte, e la dico così come la penso, in molti casi sia da governi di destra sia da governi che si richiamavano alla sinistra, hanno peggiorato la condizione di vita e di lavoro delle persone. E questo ha determinato una rottura tra il mondo del lavoro e la rappresentanza politica. Quando in un paese come il nostro succede che la maggioranza dei cittadini non va a votare io penso che questo sia un punto di crisi democratica che ci riguarda direttamente». Quindi c’è sì l’appello al voto, a non disertare le urne, ma nel segreto dell’urna ognuno per sé: «Ognuno di voi ha il suo cuore e decide con la sua testa».

Poi, dopo le elezioni, grande manifestazione a Roma l’8 ottobre, non solo per ricordare l’anniversario dell’aggressione fascista alla sede di Corso Italia, ma anche per dire «già chiaramente al prossimo governo cosa vogliamo. Lo faremo anche prima che si formi, perché in questo modo agisce un sindacato autonomo che agisce al di là del governo che ha davanti». Meloni o Letta (o Draghi) per lui pari sono.

Landini è leader della Cgil dal gennaio 2019, quindi è alla sua prima campagna elettorale nazionale. Prima di lui c’era Susanna Camusso, socialista di origine come il suo predecessore Guglielmo Epifani, frutto di un tempo in cui il sindacato era governato dalle componenti politiche, i comunisti e i socialisti principalmente, e gli equilibri di potere dentro la confederazione si decidevano in riservati conciliaboli tra il partito di Enrico Berlinguer e quello di Bettino Craxi. Adesso la leadership è il risultato di complessi equilibri di apparato, paradossalmente più autoreferenziali di quando ci si confrontava con i rispettivi partiti.

Landini ha segnato la differenza con una svolta abbastanza ruvida. A Camusso, capolista nel listino proporzionale del Pd per il Senato a Salerno (ospite riverita con elezione garantita a cura del re di Salerno, il governatore della Campania Vincenzo De Luca), ha tolto l’auto di servizio che le spettava come benefit perpetuo dell’ex segretario generale. In nome dell’autonomia sindacale, finora interpretata in modo più pragmatico, Camusso ha perso al momento della candidatura ogni incarico e ogni prebenda del sindacato che ha guidato per otto anni. E la campagna elettorale se la farà con la sua auto.

Landini può vantare ottime ragioni per chiamarsi fuori dal suk elettorale. Camusso più che ai problemi dei lavoratori sembra ispirarsi alle sue ambizioni personali. Da una parte dice una cosa assurda, cioè che conta di realizzare dal suo seggio di senatrice ciò che non è riuscita a fare per i lavoratori da leader del maggior sindacato.

Dall’altra accetta di farsi paracadutare a Salerno dove, a quanto pare, a De Luca non è sembrato vero di poterle dare strada in modo da far fuori Federico Conte, figlio del potentissimo ex ministro socialista Carmelo Conte che pure, trent’anni fa, fu il vero propiziatore della carriera di De Luca, orfano del defunto Pci di cui era dirigente locale. Eletto nel 2018 nelle liste di Leu (Bersani), Federico Conte ha preso il secondo posto in lista come uno sgarbo insopportabile (infatti da quella posizione entrare in Senato è impossibile) e si è ritirato dalla corsa.

Le liste come presepio

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Dice Camusso che gliel’ha chiesto il segretario del Pd Letta di candidarsi. I più maliziosi dicono che in realtà lei abbia vantato una sorta di diritto dinastico: a nessun segretario della Cgil, da Luciano Lama in poi, è stato negato il seggio parlamentare a fine corsa, una specie di laticlavio onorifico. La stessa regola vale anche per la Cisl, dove infatti troviamo la ex leader Anna Maria Furlan, capolista in Sicilia (dove è conosciutissima come tutte le ex sindacaliste di Genova), anche lei per il Pd.

Diverso il caso di Marco Bentivogli, anche lui candidato con il Pd, pur essendo agli antipodi di Furlan, con cui ha avuto epici scontri quando lui era leader nazionale dei metalmeccanici della Fim-Cisl (infatti poi se ne andò). Ma Bentivogli è candidato in un uninominale difficile ad Ancona, la città dove è stato sindacalista per otto anni e dove vive da 20. La sua candidatura è stata invocata dai dirigenti locali del Pd, mentre in Campania la candidatura di Camusso ha destato un tale entusiasmo che la Cgil ha reagito alla notizia spostando da Napoli a Bari la grande conferenza sul Sud che si è tenuta il 7 settembre.

Letta è molto accurato nella sua idea delle liste come presepio in cui ci sono tutte le statuine giuste e tutto si tiene. Anche candidare la ex leader della Cgil che pochi mesi fa ha fatto lo sciopero generale contro Draghi e la ex della Cisl che ha boicottato lo sciopero generale contro Draghi. E alla fine è per questo che Landini non si fida di nessuno e strizza l’occhio ai suoi iscritti, come per dire «votate per chi vi pare, dopo il 25 settembre ce la giochiamo tutti insieme con chi vince».

 

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