Uno dopo l’altro, i più giovani capilista del Partito democratico sono stati presi di mira per alcuni post pubblicati tempo prima sui social network. Questa appendice di campagna elettorale ci racconta in che modo due contenitori potenti – il centrosinistra e i social – possono trasformarsi da motori di cambiamento a strumenti in mano a pochi, per fini di pochi. Sono infatti le lotte di potere e le vendette ad aver scatenato dall’interno del partito l’attività di scavo archeologico dei post dei candidati più a sinistra. Uno scenario che nelle punte più estreme evoca il factionalism, cioè il frazionismo, del partito laburista britannico. Nel frattempo chi usa ancora i social per il loro potere di mobilitazione dal basso – come i circoli del Pd Bologna, che anche su Facebook si sono opposti alla ricandidatura di Pier Ferdinando Casini – finisce inascoltato dai vertici.

Silurati e siluratori

Quando Raffaele La Regina, segretario del Pd in Basilicata, viene annunciato come capolista alla Camera, la scelta del segretario Enrico Letta spiazza alcuni nomi noti della regione. Sotto la bandiera del rinnovamento, va a guidare la lista un 29enne posizionato a sinistra, che è stato collaboratore di Giuseppe Provenzano e gli è tuttora vicino, mentre finiscono deluse le ambizioni della potente famiglia Pittella, Marcello ex governatore di regione, Gianni parlamentare uscente. Il 19 agosto il Giornale lancia la polemica su un post di La Regina: «In cosa credete di più: legittimità dello stato di Israele, alieni o al mollicato di Mauairedd?». Il vecchio post era depositato su Facebook, ma non era pubblico: era in un gruppo privato, e il Giornale precisa di «averlo visionato». Nei gruppi social popolati dai dem parte il dibattito: chi ha divulgato il post? Da dove è partita la faccenda? E giù di sospetti su ambienti del Pd lucano. Intanto La Regina ritira la propria candidatura, ed è rimpiazzato dal sottosegretario agli Affari europei Enzo Amendola. Vistosi di nuovo escluso, il 20 agosto Marcello Pittella esce allo scoperto, e dal partito: «Due veti sono troppi! Basta diktat romani!»; annuncia così il passaggio ad Azione di Carlo Calenda, e lo stesso fa poco dopo il fratello Gianni. Calenda candida Marcello Pittella al Senato in Basilicata. Ma la faida dei post non termina in Basilicata: uno dopo l’altro, vengono passati in rassegna i profili dei candidati giovani di sinistra. Rachele Scarpa, 25 anni, capolista in Veneto, viene attaccata da destra (Lega, FdI e FI) prima per un post sulla «repressione nei confronti dei civili da parte del governo israeliano», nel quale cita peraltro il rapporto di Human Rights Watch, e più di recente per un tweet nel quale invoca la patrimoniale. Marco Sarracino, segretario del Pd di Napoli, sinistra del partito, finisce bersagliato per un post instagram sulla rivoluzione d’ottobre. Ma chi si mette a setacciare a freddo la vecchia cronologia dei profili social in cerca di polemiche da innescare? Dichiaratamente lo sta facendo quantomeno Riccardo Puglisi: «Avevo annunciato che mi sarei vendicato politicamente contro Peppe Provenzano, lo sto facendo. Lo spostamento del Pd a sinistra va evidenziato», scrive l’economista, noto per le sue posizioni ultraliberiste, gli apprezzamenti a Renzi, e per aver perso per un soffio – e per le perplessità di Provenzano – la nomina di esperto a palazzo Chigi in supporto a Draghi. Puglisi scandaglia i social («Tra poco Cerroni», così questo lunedì avvertiva su Twitter la 31enne capolista della sinistra dem) e ringrazia «le mie fonti interne al Pd per le informazioni».

Reti di indignazione

Dieci anni fa il grande sociologo della comunicazione Manuel Castells raccoglieva le proteste tunisine, spagnole, newyorchesi, dalle acampadas degli indignati fino a Occupy Wall Street, sotto una chiave di lettura comune: la rete era la leva per un cambiamento radicale, «non un pezzo di questa società, ma la totalità di una società diversa». In quel libro del 2012, Reti di indignazione e di speranza, la rete intesa anzitutto come pratica sociale orizzontale e quindi anche come social network era ancora il luogo per eccellenza per scardinare il potere costituito. Il ricorso ai social in questa vicenda dem è semmai opposto: non c’è l’uso collettivo della rete per mobilitarsi dal basso, ma l’utilizzo a freddo dei post innescato da faide interne. La dinamica è già nota nel partito laburista britannico, e di recente il Rapporto Forde lo ha dimostrato. «C’era un gruppo di alto livello, nel partito – per capirci, erano i renziani del Labour, che rimpiangevano l’epoca di Blair – che utilizzava ogni mezzo, anche ciò che veniva postato sui social, pur di incastrare Jeremy Corbyn», racconta Laura Parker, che ne è stata a lungo il braccio destro. Il social regredisce così da trampolino del cambiamento a luogo di scavo archeologico dove verificare l’adesione o meno all’ortodossia centrista. La controprova di questa mutazione sta in un altro episodio che ha riguardato il Pd. Quando è ventilata l’ipotesi della ricandidatura di Casini in lista col Pd a Bologna, i circoli Pd del territorio hanno provato a utilizzare Facebook come “rete di indignazione”. Il 13 agosto l’Unione Pd Navile scriveva al segretario: «Ci sono già segni concreti di dissenso, la voce più diffusa è “Non si cambia mai”?». E il circolo Pd Pratello, su Facebook: «In queste ore in tanti ci stanno scrivendo per far sentire la nostra voce, annunciando protesta». Tutti post social rimasti inascoltati. Pochi giorni dopo, la conferma: il Pd candida Pier Ferdinando Casini al seggio uninominale di Bologna per il Senato.

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