Lelio Basso, uno degli artefici dell’articolo 3 della Costituzione, scrisse nel 1958 Il Principe senza scettro. Democrazia e sovranità popolare nella Costituzione e nella realtà italiana. Pubblicato da Feltrinelli, il libro è una pietra miliare della teoria democratica.

A partire dalla Costituzione, nella quale si riflette la lotta al fascismo e la Resistenza come emancipazione popolare dal dominio e conquista di autogoverno, Basso spiega la differenza tra concezione liberale e concezione democratica.

Lo fa a partire dall’interpretazione del diritto di voto inteso: in un contesto liberale, nel quale la libertà è concepita e goduta come indipendenza dalla società e in opposizione allo stato oppure in un contesto democratico, nel quale la libertà è una forma di partecipazione attraverso la quale i cittadini divisi per parti competono per determinare la loro vita sociale usando gli strumenti messi in campo dallo stato. Proponiamo alcuni brani a illustrazione dell’idea di uguaglianza democratica. 
     
«Si può dire che nella seconda metà dell’Ottocento e fino alla Prima guerra mondiale, lo sforzo della democrazia liberale fu quello di evitare la trasformazione del regime pur cercando di dare qualche riconoscimento alle nuove classi: in altre parole di assorbire le esigenze popolari nelle strutture del regime, conservandone però lo spirito e soprattutto la funzione. I nomi di Stuart Mill in Inghilterra, di Prévost-Paradol in Francia sono storicamente associati a questo tentativo. Tentativo non di rinnovamento, quindi, ma di adattamento, non di accoglimento delle nuove istanze, ma di compromesso. Il suffragio viene progressivamente allargato fino a diventare in parecchi paesi universale o quasi, ma le tecniche costituzionali restano le stesse, uguale il concetto di rappresentanza politica, identica la concezione della divisione del poteri e analoghi in genere i freni di fronte ad ogni pericolo di un reale manifestarsi della volontà popolare. Sarebbe perciò arrischiato parlare di veri regimi democratici fino al 1914: anche là dove strumenti democratici furono accolti, essi però furono inseriti in una struttura e in una concezione dello stato, del potere, della libertà, dei cittadini, che tendeva a perpetuare lo stato liberale. Ma questo compromesso non poteva risolvere il problema di fondo, che era il problema delle condizioni di vita delle classi lavoratrici, risolvibile solo nel quadro di un mutamento radicale delle strutture statali. Lo stato liberale era lo stato dei notabili, mentre si trattava di creare uno stato che facesse largo posto alle masse. Appunto perché stato dei notabili, dei potenti, di coloro che avevano in mano la ricchezza, lo stato liberale poteva darsi l’aria di assistere neutrale al gioco spontaneo delle forze sociali dove i ricchi e i potenti avrebbero senz’altro avuto la meglio, salvo intervenire ogni qualvolta ciò fosse richiesto dall’interesse stesso dei potenti. Uno stato veramente democratico avrebbe dovuto invece contribuire positivamente, con la sua opera e con i suoi interventi nella vita pubblica e nell’economia, a migliorare la condizione delle masse, limitando, se del caso, l’influenza dei potenti. Lo stato liberale conosceva solo dei cittadini, lo stato democratico avrebbe dovuto conoscere invece l’uomo reale, con le sue differenti situazioni sociali e i suoi differenti bisogni, onde prestare la necessaria protezione alle classi e agli individui più bisognosi».

La democrazia segna il superamento dell’individuo astratto e l’affermazione del concetto di persona, il quale consente di evidenziare la specificità di ognuno e ognuna, pur nell’uguaglianza legale e politica, e quindi di coniugare l’uguaglianza astratta alle condizioni effettive del suo godimento: a questo si deve l’inclusione della felicità nel discorso politico.
 
«Anche queste aspirazioni trovavano, come abbiamo ricordato, il loro lontano fondamento nella Rivoluzione francese, in cui erano esplose insieme, ora collaborando contro la monarchia e la nobiltà, ora combattendosi nei club e nelle assemblee, sia l’anima liberale della borghesia che quella democratica delle masse popolari, soprattutto degli artigiani e dei piccoli bottegai della città di Parigi. “Le bonheur” [la felicità] era stata la grande speranza di queste masse: il diritto alla felicità su questa terra, ma non soltanto per le generazioni future. “Une idée neuve en Europe” aveva definito Saint-Just alla Convenzione quest’idea del “bonheur”, che aveva già fatto capolino nella Dichiarazione d’indipendenza americana, che non aveva figurato nella Dichiarazione dei diritti dell’89, ma che doveva riapparire nel primo articolo della Dichiarazione del ‘93. Del resto lo stesso Montesquieu, non sospetto di democratismo, non aveva già scritto nel suo Esprit des Lois: “Per quante elemosine si facciano a un uomo nudo nelle strade, ciò non serve affatto ad adempiere agli obblighi dello stato, che deve a tutti i cittadini il sostentamento assicurato, il nutrimento, la possibilità di vestirsi convenientemente e un genere di vita che non sia contrario alla salute”? E all’Assemblea costituente [francese] fra le tante proposte, non c’era stata per esempio, quella contenuta nell’articolo 6 del progetto Target, in base al quale “il corpo politico deve ad ognuno dei mezzi di sussistenza derivati o dalla proprietà, o dal lavoro, o dai soccorsi dei suoi simili”? E non aveva Malouet nella seduta del 3 agosto 1789 reclamato “lavoro e sussistenza fondati sugli obblighi della società verso quelli che ne mancano, e sulle immense risorse della nazione per assicurare l’uno e l’altra”?» 

Ma felicità non è una condizione esclusivamente individuale, bensì desiderio di una valida vita materiale e di relazione che sia sollevata quanto più possibile dagli impedimenti socio-economici, come la disuguaglianza, l’ignoranza e la povertà.  

Amartya Sen direbbe che la libertà ha per noi significato qualora l’associamo allo sviluppo delle nostre capacità di svolgere il nostro lavoro e realizzare noi stessi in una relazione di riconoscimento e di reciprocità con gli altri: questa è una ragione di soddisfazione o felicità.

«Chi dice “bonheur” dice lotta alla miseria, ai bisogni, alla vita stentata e abbrutita delle masse schiacciate dall’industrialismo trionfante; chi dice “bonheur” dice rivolta contro lo sfruttamento, contro l’eccessiva ricchezza, contro le incolmabili distanze sociali. E non basta l’ottimismo borghese ad assicurare con [Samuel] Smiles che “volere è potere”, che chiunque può guadagnarsi una fortuna con il lavoro e con il risparmio, che il regime liberale, il regime della lotta e della concorrenza, è il più aperto al successo e alla felicità. I fatti sono là a smentire ogni giorno questa dottrina ingannatrice e dalla loro tragica esperienza i lavoratori apprendono che solo un mutamento dell’ordine sociale e giuridico può aprire ad essi la strada della felicità. Ma se la felicità di tutti deve essere lo scopo della società, è la società stessa, la società organizzata e quindi anche lo stato, che deve operare in questa direzione, che deve proteggere chi ne ha bisogno, che deve cessare di essere lo spettatore neutrale, come pretende di essere, e tanto meno il difensore dei privilegi e degli interessi consolidati, come è nella realtà. È attorno a questi problemi che per quasi tutto il [Diciannovesimo] secolo si svolse la battaglia politica: principio individuale contro principio sociale, stato liberale contro stato democratico, eguaglianza giuridica contro eguaglianza reale, l’una e l’altra posizione traendo armi ideologiche dal vecchio bagaglio della Rivoluzione francese in cui i due principî si erano affrontati, ma la seconda portata avanti soprattutto dalla realtà, dall’esperienza, dalla condizione vera delle masse che fornivano argomenti per la battaglia ideale e forza politica per le lotte da combattere. Poiché quindi l’uomo non è per sé stesso mera individualità, ma è dialettica di individualità e socialità, entrambe ugualmente parti integranti della natura umana, ne deriva che anche la libertà non può concepirsi come contrapposizione di questi due momenti ma come un equilibrio di essi».

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