La premier in pectore, Giorgia Meloni, si è staccata dagli impegni per costruire la squadra di governo per incontrare i parlamentari neo eletti di Fratelli d’Italia. Molti più rispetto a 5 anni fa e tantissimi volti nuovi, l’incontro si è svolto a Montecitorio. Meloni ha regalato ai neoparlamentari una cravatta per gli uomini e un foulard per le donne, con il logo di Fratelli d’Italia e della diciannovesima legislatura.

La leader ha parlato senza però entrare nel merito dei difficili giorni di confronto con gli alleati. Agli eletti ha raccomandato responsabilità e presenza in aula. «Siamo consapevoli del risultato che abbiamo ottenuto e sentiamo la responsabilità di dover affrontare una sfida di governo nella condizione più difficile nella quale l'Italia potesse trovarsi. Ogni qual volta entrerete in parlamento dovrete pensare a tutti gli italiani che il 25 settembre hanno visto in noi la loro speranza e ci hanno messo in mano il loro futuro. Così come dovrete pensare a tutti quelli che non ci hanno votato perché, in alcuni casi, la speranza l'hanno persa. E dovremmo lavorare per far cambiare loro idea», ha detto Meloni.

Il prossimo governo

Sul fronte della costituzione del prossimo governo, ha spiegato che «puntiamo ad essere pronti e il più veloci possibile. Lavoreremo per procedere spediti partendo dalle urgenze dell'Italia, come il caro bollette, l'approvvigionamento energetico e la legge di bilancio. Perché il nostro obiettivo è correre, perché non possiamo e non vogliamo perdere tempo. Tutto quello che faremo sarà per difendere gli italiani e non saremo mai disposti a fare scelte che vadano contro l'interesse nazionale».

Infine, un accenno anche a chi è Fratelli d’Italia: «Abbiamo rotto tutti gli schemi, creando diversi cortocircuiti nella sinistra e nel mainstream. Noi siamo una cosa completamente diversa da tutto quello che è stato visto finora. Noi non ci ispiriamo a nessuno ma siamo la nostra storia e vorremmo essere noi domani un modello di ispirazione per gli altri».

Gli alleati

L’incontro con i neoparlamentari coincide con ore complicate all’interno dell’alleanza di centrodestra. Se nei giorni scorsi la polemica ha riguardato soprattutto la Lega e la volontà di Matteo Salvini di avere il Viminale, il vertice di Arcore del fine settimana ha lasciato Silvio Berlusconi molto contrariato.

Il presidente di Forza Italia spinge perché Licia Ronzulli, sua fedelissima, abbia un ministero di peso. Meloni, invece, non sembrerebbe orientata a dare spazio al braccio destro del Cavaliere nella sua squadra, se non in una posizione defilata.

La replica pubblica di Berlusconi è arrivata a distanza, su Facebook, parlando di metodo: «Non esistono, non possono esistere, fra partiti alleati, veti o pregiudiziali verso qualcuno. Se questo accadesse, ma non è il caso nostro, non lo potremmo mai accettare». Inoltre, «non procederemo con il 'manuale Cencelli' in uso nella prima Repubblica per spartire i posti di governo secondo i pesi delle singole forze politiche, ma utilizzeremo come primo criterio di scelta l'efficienza, la concretezza, la capacità di lavoro dimostrata nel tempo da ciascun candidato».

La guerra delle camere

Tuttavia, un primo passo falso Meloni sembra averlo commesso e a tradirla è stata la volontà di arrivare davanti al Quirinale coi compiti già fatti. Quelle in corso in questi giorni, infatti, sono state vissute dentro al centrodestra come una sorta di consultazioni anticipate, prima ancora di ricevere formalmente l’incarico a costituire un governo. L’obiettivo della fretta era quello di varare il nuovo esecutivo nel minor tempo possibile, il risultato è stato un progressivo logoramento della leader. Dopo dieci giorni di lavoro, infatti, tutte le caselle sono ancora aperte, in particolare quella del titolare di via XX Settembre, da cui dipendono a cascata molte altre scelte. Gli alleati Lega e Forza Italia, inoltre, hanno progressivamente aggiunto pressione per capitalizzare al massimo e ottenere il maggior numero di ministeri chiave, in particolare quelli con più potere di spesa dai fondi Pnrr.

Nel nulla di fatto per l’esecutivo, diventa allora cruciale il passaggio delle nomine dei vertici delle due camere. Il 13 ottobre si insedieranno la Camera e il Senato e fervono già i preparativi per l’elezione dei due presidenti. Ormai tramontata l’ipotesi di regalare una delle due presidenze all’opposizione, a chi andrà lo scranno più alto di Montecitorio e palazzo Madama è il primo passaggio per testare la capacità politica di Meloni.

I nomi in lizza sono ancora parecchi. Per il Senato, Meloni vorrebbe il suo collega di partito, Ignazio La Russa, mentre la Lega lo reclama per Roberto Calderoli. A seconda di chi verrà scelto a palazzo Madama, per la Camera sono in corsa il leghista Riccardo Molinari e Fabio Rampelli. Outsider con il rischio del veto di Salvini, il leghista Giancarlo Giorgetti.

Per ora, tutti nomi di uomini e nessuno di Forza Italia, che lascerebbe la partita delle presidenze dopo il quinquennio al Senato di Elisabetta Casellati.

In entrambi i rami del parlamento, la votazione si protrarrà probabilmente per due giorni. Al Senato alla prima votazione servirà la maggioranza dei membri eletti, alla terza la maggioranza dei presenti e se ancora non bastasse alla quarta ci sarà il ballottaggio dei due più votati. Alla Camera, alla prima votazione serviranno i due terzi dei membri, alla seconda e terza serviranno i due terzi dei votanti, alla quarta, infine, basterà la maggioranza assoluta.

Considerate figure di garanzia, i due presidenti hanno in realtà poteri significativi nel condizionare i lavori d’aula. Basti pensare al cosiddetto “lodo Iotti”, introdotto dalla presidente della Camera Nilde Iotti (presidente dal 1979 al 1992), che prevedeva di separare la discussione degli emendamenti dal voto di fiducia, in modo da impedire l'ostruzionismo con interventi fiume. Proprio questa prassi innovativa è stata richiamata anche da un altro presidente della Camera di segno politico opposto: Gianfranco Fini, nel 2009, fece riferimento proprio al lodo Iotti per velocizzare l’iter sul decreto legge per correggere la manovra anticrisi. 

Meloni preferirebbe tenere per se il Senato: è la camera più instabile in cui la maggioranza è risicata e una sapiente gestione d’aula sarebbe una garanzia non di poco conto per l’esecutivo. Inoltre, queste prime due nomine scremeranno la lista dei pretendenti ai dicasteri, iniziando a semplificare il quadro.

© Riproduzione riservata