Usa, la grande fuga verso la Cina di capitali e cervelli: il caos Trump spaventa le imprese

Il clima di iperdecisionismo e improvvisazione normativa imposto da Donald Trump sta logorando la fiducia delle grandi aziende. La miscela di dazi imposti senza preavviso – questo lunedì è stato il turno dei film stranieri, tassati al cento per cento – licenziamenti nella pubblica amministrazione e campagne contro singole imprese considerate nemiche dell’agenda trumpiana ha convinto diversi gruppi globali a cercare approdi più stabili. Secondo il Financial Times, la lista delle aziende che stanno valutando spostamenti di quartier generale, centri di ricerca o poli produttivi fuori dagli Stati Uniti è ormai lunga: dal farmaceutico all’hi-tech, dall’automotive alla finanza. A muovere questa tendenza non sono certo le condizioni fiscali, tendenzialmente favorevoli, quanto l’imprevedibilità di un contesto dove un’uscita in maiuscolo su Truth può cancellare mesi di investimenti. Il trumpismo economico si fonda sulla retorica della difesa dei posti di lavoro americani, ma in realtà rischia di produrre l’effetto opposto: l’erosione dell’attrattività degli Stati Uniti come hub per le imprese globali. Non solo: la guerra a colpi di dazi e ritorsioni commerciali ha spezzato catene di fornitura costruite in decenni, obbligando le aziende a ridisegnare mappe logistiche che spesso trovano sbocco in Europa o in Asia. Le evidenze si accumulano, non si può più ignorarlo: Donald Trump è un tiranno Cervelli in fuga Alla crisi regolatoria si aggiunge anche la fuga dei cervelli. Università e centri di ricerca americani, che per decenni hanno attratto i migliori studenti del mondo, denunciano un calo di iscrizioni internazionali e la difficoltà crescente a trattenere i talenti già formati. La politica restrittiva dei visti, combinata con l’incertezza su finanziamenti e programmi federali, sta allontanando schiere di scienziati. La decisione di mettere una commissione da centomila dollari sui visti H1-B, per gli immigrati altamente qualificati, introduce una barriera enorme per quella classe di lavoratori che tradizionalmente ha sostenuto la competitività di settori strategici, che cercavano competenze e professionalità su scala globale. E c’è almeno un competitor globale pronto a approfittarne. La Cina vive un fenomeno inverso, un ritorno dei talenti che avevano costruito la loro carriera negli Stati Uniti e in Europa ma ora rientrano in patria, attratti da laboratori all’avanguardia, università competitive, investimenti generosi (ovviamente statali) e un ecosistema che offre prestigio e stabilità. Il Partito comunista ha fatto della scienza e della tecnologia uno dei perni della competizione geopolitica con Washington, convogliando risorse enormi su intelligenza artificiale, biotecnologie e nuovi materiali. Le università cinesi scalano le classifiche, i centri di ricerca si moltiplicano, e la retorica patriottica alimenta la narrazione di un paese che non ha più bisogno di copiare, ma è pronto a guidare l’innovazione globale. Negli Stati Uniti tira una brutta aria per la libera stampa Predominio annunciato Il critico letterario Stephen Greenblatt, in un articolo delle scorse settimane sul New York Times, ha descritto in modo sinteticamente impietoso questa transizione: la Cina ha già conquistato la supremazia in alcuni settori chiave della ricerca scientifica, non solo per quantità di pubblicazioni ma per qualità degli studi. Il sorpasso è reso possibile proprio dalle incertezze americane: mentre Trump taglia fondi o li utilizza come arma politica, Pechino pianifica a lungo termine. L’America di Trump, che prometteva di riportare a casa lavoro e produzione, rischia di consegnare interi comparti industriali alla concorrenza straniera. Le aziende scappano non solo per massimizzare i profitti, ma per garantirsi la certezza delle regole. I cervelli fuggono perché altrove trovano valorizzazione delle competenze e finanziamenti adeguati. La Cina, al contrario, si presenta come porto sicuro, nonostante il contesto autoritario: un modello meno libero ma più affidabile per chi lavora in settori che richiedono stabilità decennale. La domanda che resta aperta è se gli Stati Uniti abbiano ancora la forza di invertire questa tendenza. La competitività globale non si gioca più soltanto sulle aliquote fiscali o sui pacchetti di stimolo, ma sulla capacità di un paese di offrire un quadro politico e istituzionale credibile. A nove mesi dal ritorno di Trump alla Casa Bianca, la risposta delle imprese sta diventando chiara: l’instabilità americana non è più un rischio accettabile.