Dall’inizio della Rivoluzione della dignità e della libertà nel 2011, il mese di gennaio ha sempre rappresentato per la Tunisia un momento di forti mobilitazioni e proteste contro la crisi economica e sociale che da anni sta interessando il paese.

Quest’anno non ha fatto eccezione, nonostante il lockdown di quattro giorni proclamato dal governo per contenere l’epidemia da Covid-19. L’annuncio da parte delle autorità tunisine è arrivato appena prima del 14 gennaio, il giorno esatto del decimo anniversario della caduta dell’ex presidente Zine El-Abidine Ben Ali.

Le contestazioni notturne sono scoppiate il 15 e, nei diversi giorni di mobilitazioni che hanno interessato tutto il paese dalla costa all’entroterra, gli arresti sono stati più di mille, tra cui molti minori.

«La maggior parte dei fermi avviene però di giorno e sono del tutto arbitrari - afferma Oumayma Mehdi di Avocats sans frontières - non avvengono durante gli scontri ma nelle abitazioni, che siano minori o no. Abbiamo avuto casi di persone arrestate mentre andavano a buttare la spazzatura o a comprare il pane».

L’attenzione verso una delle ricorrenze più importanti in Tunisia è tornata quindi in primo piano proprio nei giorni del lockdown nazionale, sulla scia di una disillusione collettiva che va avanti da anni.

Nel centro di Tunisi, a tenere vivo il ricordo delle proteste di massa che spinsero alla fuga di Ben Ali verso l’Arabia Saudita dieci anni fa sono ancora oggi coloro che portano i segni di quelle mobilitazioni: i feriti della Rivoluzione dei gelsomini.

Nella capitale che si stava preparando a manifestare il 14 gennaio, decine di persone hanno occupato il palazzo dell’Instance générale des résistants, martyrs et blessés de la révolution et des opérations terroristes in avenue de la Liberté. Dal 21 dicembre, giorno e notte, è presente il sit-in permanente dei feriti della Rivoluzione.

«Qui è dove stava il presidente dell’Istanza - racconta Omar Iboudi mostrando la grande scrivania al settimo piano dell’edificio, occupata normalmente da Abderrazak Kilani - abbiamo deciso di mobilitarci per chiedere una cosa molto semplice: la pubblicazione della lista dei martiri e dei feriti della Rivoluzione, sono dieci anni che aspettiamo e nel frattempo non possiamo accedere alle cure che ci servono».

Omar ha 45 anni, qualche anno fa il governo gli ha offerto un negozio di souvenir a Sidi Bou Said, una località turistica poco lontano da Tunisi. Oggi il Covid-19 ha azzerato le entrate e le alternative sono poche. Ricorda ancora quando il 13 gennaio 2011 è rimasto ferito: «Ero con dei miei amici e stavamo protestando. A un certo punto i poliziotti antisommossa hanno cominciato a sparare gas lacrimogeni e non ci ho più visto niente, è stato lì che uno di loro mi ha colpito al braccio con un manganello. All’epoca le ossa mi sono uscite fuori, oggi avrei bisogno di un’operazione chirurgica che non posso permettermi».

Secondo Amnesty International, i morti della Rivoluzione sono 132, i feriti oltre 4mila. Oggi il grande palazzo bianco è tappezzato di foto di chi ha perso la vita e di chi è rimasto ferito durante le manifestazioni del 2011. All’entrata campeggia lo striscione con le richieste degli occupanti.

A terra, invece, sono presenti letti e bottiglie di benzina nascoste sotto le coperte. «Pochi giorni fa ci siamo cuciti la bocca per dimostrare al governo che voleva il nostro silenzio, oggi invece sono pronto a darmi fuoco se la polizia dovesse venire a sgomberarci. Non è una mia decisione, è una necessità. Stiamo aspettando da troppo tempo i nostri diritti» dice Muslim Ghazala, un ragazzo che ha perso una gamba a 21 anni mentre era impegnato a sorvegliare l’autostrada che dalla città di M’Saken arriva a Kairouan.

La lista dei martiti

Il governo tecnico tunisino presieduto da Hichem Mechichi è l’organo deputato ad approvare la lista ufficiale dei martiri e dei feriti della Rivoluzione. L’ultimo aggiornamento risale al 13 gennaio scorso, con la promessa di pubblicazione prevista per marzo 2021.

«Non ci credo - prosegue Muslim - è il solito chiacchiericcio politico. Se dobbiamo restare qui fino a marzo, resteremo qui fino a marzo. Riconoscere la lista vorrebbe dire riconoscere la Rivoluzione e processare coloro che ci hanno procurato queste ferite, gli stessi che continuano a svolgere il loro lavoro impuniti».

La lista non vive solo un problema di natura politica ma anche amministrativa, come spiega Seif Bentili dell’osservatorio democratico Al Bawsala: «Più istanze nel corso degli anni hanno lavorato su questo dossier, le persone cambiano e non è immediato trovare i nomi giusti per la lista. Ora il governo ha promesso che a marzo sarà pubblicata, c’è la speranza che possa essere effettivamente così».

«Dégage», il grido che ritorna

Nonostante il divieto di manifestare imposto per il lockdown, il 14 gennaio gli occupanti dell’Istanza hanno intrapreso una marcia pacifica da avenue de la Liberté con l’obiettivo di arrivare in avenue Bourguiba, la via principale di Tunisi dove dieci anni fa al grido di «Dégage» migliaia di manifestanti hanno posto fine al regime autoritario durato più di vent’anni.

Gli accessi erano bloccati da un ingente numero di forze dell’ordine, impegnate a identificare chiunque si avvicinasse al centro della capitale. Muslim Ghazala, alla testa del corteo composto da un centinaio di persone, ha intonato cori per chiedere il riconoscimento dei diritti dei feriti della Rivoluzione.

«Chiediamo che la legge venga applicata. Non ce l’abbiamo con nessuno, solo con chi ci ha sparato addosso», sono state le grida dei manifestanti. Uno sforzo reso vano dalla polizia, che a un centinaio di metri da avenue Bourguiba ha caricato la marcia. Una volta rientrati ad avenue de la Liberté, lo sguardo di Omar Iboudi è spento: «È una situazione triste, siamo stati completamente dimenticati».

Dieci anni dopo, la Tunisia non ha ancora trovato la dignità e la libertà che cercava nella Rivoluzione del 2011.

Il regime dispotico di Ben Ali resta un lontano ricordo ma la situazione economica e sociale del paese peggiora di anno in anno. Il tasso di disoccupazione nazionale supera il 16 per cento, con vette del 35 per cento per quanto riguarda i giovani. Le disparità tra costa ed entroterra sono in aumento e le opportunità scarse, come testimoniano le oltre 12mila persone che sono partite verso le coste italiane nel solo 2020.

A questa situazione si è aggiunta l’epidemia da Covid-19 che ha causato la perdita, senza contare il settore informale, di almeno 70mila posti di lavoro. Le riforme da fare restano tante, anche a livello istituzionale, a partire dalla creazione di una corte costituzionale indipendente: «La corte costituzionale è il simbolo della mancanza di riforme in Tunisia - è il commento di Lamine Benghazi di Avocats sans frontières - non averla significa non potere dichiarare incostituzionale il sistema legislativo di oppressione all’epoca di Ben Ali, abbiamo un’istanza provvisoria ma che controlla solo i progetti di legge».

Ben Ali e l’epoca della dittatura. Oggi il senso di smarrimento nella popolazione tunisina è evidente ma il rischio di un ritorno al vecchio apparato autoritario è lontano. Omar ricorda molto bene gli anni dell’ex presidente: «Quando c’era Ben Ali avevamo paura anche dei muri per quanto eravamo controllati. Bastava dire una parola in più e venivi arrestato. Oggi è diverso, possiamo parlare liberamente anche se la politica e la corruzione rimangono. Abbiamo tagliato la testa del polpo ma sono rimasti i tentacoli. Si stanno dividendo il paese, per noi non c’è niente».

Il 17 dicembre 2010 Mohamed Bouazizi, un giovane venditore ambulante di Sidi Bouzid, decise di darsi fuoco perché stanco dei continui soprusi della polizia. Morì circa venti giorni dopo senza sapere della Rivoluzione, della caduta di Ben Ali e che molte cose sarebbero cambiate da lì a breve.

Il giorno prima di guidare i suoi compagni nella marcia verso avenue Bourguiba Muslim Ghazala raccontava dei giorni rivoluzionari, degli scontri con la polizia e di come oggi si trovi costretto a lavorare nei campi con le stampelle e senza una gamba dopo avere rifiutato un lavoro da guardiano di notte da parte del governo. Seduto sul letto all’entrata del palazzo, lo sguardo e le parole sono di chi, dieci anni dopo e nonostante tutto, non si è ancora arreso: «Siamo qui per finire la nostra rivoluzione».

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