Se davvero la Grecia è lo «scudo d’Europa», come lo ha definito a marzo la presidente della commissione europea Ursula von der Leyen, allora quello scudo è pieno di ferite e di bruciature, proprio come il campo di Moria sull’isola greca di Lesbo. Il campo ha una capienza di tremila richiedenti asilo ma ne ospitava circa dodicimila (e nei periodi di massimo flusso è arrivato a ventimila presenze, cioè sette volte la cifra consentita). Adesso, dopo due incendi di fila (uno l’8 settembre e l’altro la sera successiva), non è più un luogo per nessuno. 

Sempre che lo sia mai stato, viste le condizioni inumane del posto; lo denunciano da tempo svariate organizzazioni internazionali. Nel 2015 la guerra civile in Siria ha fatto aumentare la pressione migratoria verso la Grecia, e le isole greche sono diventate un hot spot dove convogliare i migranti che cercavano di arrivare in Europa. Lesbo è uno di questi punti. Nel 2018 Medici senza frontiere riferiva che un bambino su quattro a Moria ha pensato di suicidarsi; poi ci sono i casi di persone morte per il freddo, gli abusi sessuali, le violenze, per non parlare di traumi psicologici, igiene pessima, mancanza di assistenza sanitaria. 

Ora «i due incendi, le cui cause sono da chiarire ma che è probabile che siano dolosi, hanno lasciato senza ristoro quattromila minori, tremila donne, e numerose persone in condizioni di vulnerabilità» dice dalla Grecia Stella Nanou dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati. Quattrocento minori non accompagnati sono stati trasferiti in aereo al sicuro sulla terraferma, ma cosa succederà agli altri è ancora da chiarire. «Bisogna che l’Europa non si limiti a chiedere alla Grecia di blindare le frontiere e a dare supporto finanziario, ma che si impegni anche a garantire rifugio ai richiedenti asilo; e a farlo non può essere la Grecia da sola, serve un impegno condiviso» dice Nanou. Per ora i migranti, rimasti senza campo, sono sparpagliati per le vie dell’isola; molti di loro hanno dormito stretti uno accanto all’altro, avvolti in una coperta, sul ciglio della strada. E il governo greco preannuncia che «ci vorranno giorni, per trovar loro una qualche dimora». 

«Scudo d’Europa»: Ursula von der Leyen aveva definito così la Grecia al principio di marzo mentre annunciava lo stanziamento di settecento milioni di euro per rafforzare la messa in sicurezza della frontiera dall’arrivo dei migranti. Una “messa in sicurezza” che proprio in quei giorni si era tradotta nell’uso di lacrimogeni e di respingimenti violenti da parte delle forze di sicurezza greche. A marzo infatti la Turchia aveva aperto le frontiere ai migranti che spingevano verso l’Unione europea, e che prima aveva trattenuto a sé in nome dei soldi promessi da Bruxelles: un accordo firmato nel 2016, in piena crisi migratoria, ha garantito a Recep Tayyp Erdogan sei miliardi di euro, in cambio sono stati trattenuti dentro i confini turchi quasi quattro milioni di rifugiati. Nella primavera di quest’anno, il presidente turco ha usato la gestione dei flussi migratori come elemento di ricatto nella negoziazione di altre partite geopolitiche, anzitutto quella siriana. Mentre rivendicava i soldi dell’accordo, a suo dire ricevuti solo per metà, Erdogan dichiarava aperto il proprio confine (e, secondo la Grecia, “spingeva” i migranti verso la frontiera) e al contempo chiedeva una sponda sulla Siria ai leader di Germania, Francia e Regno Unito sulla Siria. Intanto dalle coste turche arrivavano barchini coi migranti, che al grido di «pace, pace» cercavano accoglienza in Grecia. E la Grecia rispondeva agli arrivi con lacrimogeni alla frontiera.

Faceva “scudo”. «Non venite, non andate alla frontiera» disse in quei primi giorni l’alto rappresentante dell’Unione europea Josep Borrell riferendosi al confine tra Grecia e Turchia. «La nostra frontiera è chiusa, e se qualcuno vi ha detto che è aperta, sappiate che vi ha detto una menzogna». Il punto è che mentre il patto con la Turchia rivela tutti i suoi limiti, tarda ad arrivare una riforma del patto europeo su migrazione e asilo, nonostante l’emergenza risalga ormai a cinque anni fa. Dopo una lunga serie di rinvii, a fine settembre dovrebbe arrivare finalmente la proposta della Commissione. L’idea è che stavolta la gestione di frontiere, arrivi e flussi sia davvero collettiva.

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