Nel governo cinese è scomparso il secondo ministro nel giro di un paio di mesi. Questa volta si tratta di quello della Difesa, Li Shangfu, secondo fonti occidentali finito agli arresti domiciliari.

E, in una catena di eventi che potrebbe rivelare uno scontro di potere ai vertici del partito comunista, ieri Pechino ha annunciato che a rappresentare la Cina all’assemblea generale dell’Onu che inizierà martedì prossimo a New York al posto del capo della diplomazia, Wang Yi, ci sarà il vice presidente Han Zheng.

Tuttavia da Mosca fanno sapere che Wang apparirà il giorno prima in Russia, per un colloquio con il suo omologo Sergei Lavrov. Staremo a vedere.

Il generale Li è stato visto in pubblico l’ultima volta il 29 agosto scorso. Pechino - a quanto riferisce la Reuters - la settimana scorsa ha informato all’ultimo minuto Hanoi che per “motivi di salute” Li era stato costretto a cancellate l’incontro alla frontiera con il collega vietnamita Phan Văn Giang. L’ambasciatore statunitense a Tokyo, Rahm Emanuel, ha aggiunto che Li non si è presentato a un appuntamento con il capo della marina di Singapore, perché «posto agli arresti domiciliari».

In Cina i ministri sono dei meri esecutori, le cui mosse vengono dettate dal vero governo del paese, i sette membri del comitato permanente dell’ufficio politico del partito comunista.

Ciononostante la sparizione di Li è clamorosa, anzitutto per la caratura di questo funzionario. Rieletto nel comitato centrale dal XX congresso del partito, Li è membro della commissione militare centrale, l’organismo del Pcc che guida le forze armate seguendo la dottrina maoista secondo cui «è il partito che comanda il fucile e mai dobbiamo permettere che il fucile comandi il partito».

È stato messo in quella casella da Xi, nonostante il sessantacinquenne originario di Chengdu figurasse nella lista nera degli Stati Uniti, accusato di aver favorito il «trasferimento da parte della Russia alla Cina di aerei da combattimento Su-35 e attrezzature relative al sistema missilistico terra-aria S-400».

Li inoltre rappresenta la figura del funzionario perfetto per il partito così come riformato da Xi: ha “sangue rosso”, in quanto figlio di un combattente che partecipò alla Lunga marcia e alla Guerra di Corea, ed è anche “professionale”, ingegnere laureato all’Università nazionale di difesa e tecnologia, per anni ai vertici del programma spaziale e fautore della riorganizzazione e modernizzazione dell’Esercito popolare di liberazione (Epl).

Xi Jinping presidia

Le sparizioni di Li e quella di Qin Gang (anch’egli nel comitato centrale), rimosso dall’incarico di ministro degli Esteri il 25 luglio, sono avvenute entrambe per “motivi di salute”, la tipica, prima non-spiegazione che il partito dà nei casi in cui i suoi funzionari siano stati messi sotto inchiesta.

A luglio l’Epl aveva improvvisamente sostituito due leader della sua forza missilistica, l’unità d’élite che supervisiona l’arsenale di vettori nucleari e balistici. Mentre non si contano i graduati arrestati dal 2013, quando Xi ha scatenato una campagna anticorruzione - diretta dalla commissione centrale di vigilanza del Pcc - e resa permanente, secondo lo slogan del partito, che minaccia di non risparmiare le “mosche”, né le “tigri”.

Per Qin invece (che grazie alla sua vicinanza a Xi era stato promosso in tre anni da capo del protocollo diplomatico, ad ambasciatore a Washington, a ministro degli esteri) potrebbe essere stata fatale la sua relazione extraconiugale con una reporter cinese all’estero, Fu Xiaotian, che secondo alcuni avrebbe fatto il doppio gioco, lavorando per i servizi cinesi e per l’intelligence britannica, e che sarebbe legata alla cosiddetta “fazione di Shanghai”, cresciuta attorno all’ex segretario Jiang Zemin e avversaria di Xi.

Forse i casi di Li e Qin non sono collegati. Ma si trattava pur sempre di tessere, entrambe importanti, del potere di Xi.

Il sospetto è che qualcuno abbia lavorato dietro le quinte per smascherarne le malefatte, rendendone necessaria la rimozione e colpendo così l’autorità di un leader, Xi Jinping, uscito, in teoria, senza avversari dall’assise quinquennale dello scorso ottobre.

Uno scenario che spiegherebbe anche la prolungata permanenza di Xi in Cina e le sue scarse apparizioni in pubblico questa estate, che sarebbe dovuta dunque non soltanto alle difficoltà economiche del paese, ma anche a problemi politici interni al Pcc, apparentemente piuttosto seri. Fino allo scorso fine settimana, quando il presidente cinese ha saltato per la prima volta un summit del G20.

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