Quando sentiamo nominare la città di Taranto la prima immagine che ci viene in mente è quella dell’Ilva. Il polo siderurgico si staglia prepotentemente all’orizzonte quando si entra in città da sud-ovest ed è finito così tante volte agli onori della cronaca negli ultimi anni da essere diventato – purtroppo – quasi il simbolo della città.

Meno noto è invece il ruolo che Taranto ricopre a livello militare. Per chi vive o frequenta la città, posti come il Monumento ai marinai, posizionato dall’altro lato del lungomare rispetto al Castello aragonese, o l’Arsenale con il suo muraglione che per chilometri divide il mondo militare da quello civile sono ben conosciuti, ma ci sono luoghi di interesse ancora maggiore in città.

Primo fra tutti la base militare del mar Grande, da anni quartier generale Hrf Nato, la forza navale “ad alta prontezza” per la protezione del fianco sud dell’Alleanza.

Della Maristanav si è tornati a parlare di recente, dopo il suo inserimento nel progetto “Basi blu”, il programma pluriennale per l’ammodernamento di alcune basi navali distribuite sul territorio italiano, che saranno così in grado di ospitare gruppi navali dell’Alleanza o di altri paesi alleati.

Nel caso di Taranto, i fondi di “Basi blu” si aggiungeranno ai 203 milioni di euro del Fondo di sviluppo e coesione, che nel 2020 aveva già dato il via ai lavori di ampliamento della base tarantina.

Questo nuovo programma prevede il dragaggio dei fondali, il consolidamento delle banchine esistenti e la realizzazione di due nuovi moli. Tutti interventi che rischiano di avere un impatto ambientale considerevole e che già in passato avevano scatenato proteste tra i pescatori tarantini.

Come ricorda Alessandro Marescotti, presidente dell’associazione Peacelink, la base militare si trova nel mar Grande, lo stesso nel quale dovrebbe essere spostare la coltivazione delle cozze, viste le alte temperature e il tasso di inquinamento nel mar Piccolo, ma non è chiaro che effetti il dragaggio avrà sulle acque. 

La base militare

A preoccupare  però sono prima di tutto le ricadute militari del programma, non solo su Taranto ma in generale per l’Italia. La base pugliese ha già una valenza strategica per la Nato grazie alla sua posizione nel Mediterraneo e con questi nuovi lavori si ampliano le possibilità di utilizzo in missioni che guardano a oriente.

L’Italia d’altronde è sempre più impegnata nel Mediterraneo allargato ed oltre, come dimostra la recente assegnazione del comando operativo della missione Aspides, approvata a metà febbraio per rispondere alla minaccia degli Houthi nel mar Rosso. Ma la proiezione dell’Italia continua ad espandersi.

«Nei prossimi mesi inizieranno le esercitazioni navali davanti alle coste della Cina e l’Italia schiererà gli F-35 e la portaerei Cavour. Ciò comporta un cambio strategico», afferma Marescotti, che ricollega questa notizia agli incontri tra la premier Giorgia Meloni e l’omologo giapponese Fumio Kishida.

Durante uno di questi bilaterali, i primi ministri hanno annunciato un rafforzamento della cooperazione in ambito militare e di difesa, oltre ad aver lodato ancora una volta gli accordi per la costruzione congiunta del caccia del futuro. «Stiamo uscendo dal mandato Nato, che in teoria dovrebbe essere solo difensivo e limitato al Mediterraneo», afferma Marescotti, «e se la Marina italiana dovrà operare anche nell’Indo-pacifico ci sarà bisogno di più finanziamenti».

L’occupazione

ANSA

L’ampliamento della base è sponsorizzato come un volano per l’economia tarantina, in sofferenza a causa della crisi dell’Ilva e del suo indotto, ma la scelta di puntare sul settore militare non è necessariamente quella vincente. Il sindacato Fp Cisl lamenta una carenza di personale negli uffici, soprattutto nei settori tecnici, e la mancanza di nuovi concorsi.

Come spiegato pubblicamente da Monica Gatti, coordinatrice Rsu del sindacato, al momento la base impiega circa 400 dipendenti civili, ma con i prossimi pensionamenti il numero si ridurrà ulteriormente.

Il punto però è un altro. «Taranto dipende da decenni da due grandi centri, ossia quello siderurgico e militare, e questa condizione non permette alla città di sviluppare un modello economico autonomo rispetto al mercato mondiale dell’acciaio o al comparto militare», sottolinea Marescotti.

La città dei due mari invece potrebbe diventare un laboratorio per la transizione ecologica, reintegrando almeno in parte quei 10-15mila posti di lavoro garantiti fino ad oggi dall’acciaieria. Per farlo servono maggiori investimenti in bonifiche e riqualificazione, ma anche in formazione del personale.

Gli investimenti pubblici però sono sempre più diretti verso il settore militare, tanto a livello nazionale quanto europeo, mentre la transizione ecologica viene sempre più messa da parte. Con il paradosso che la Difesa riesce persino ad attingere a fondi che, come nel caso di Basi blu, partono dalla risoluzione di alcuni problemi legati all’inquinamento per allargare le infrastrutture militari.

Il porto

ANSA

L’ampliamento della base militare di Taranto ha degli effetti anche sul porto civile della città. Le due infrastrutture distano pochi chilometri l’una dell’altra e questo limita le possibilità di certi attori di investire nel porto civile. Su questo punto si è espresso più volte anche il Copasir, soprattutto nei momenti in cui investitori cinesi erano interessati a inserirsi nei moli civili di Taranto.

Ugualmente problematica risulta la scelta di puntare sul settore delle crociere. Le grandi navi, sempre più presenti a Taranto, hanno un impatto enorme sull’ambiente e creano un ritorno economico limitato secondo un modello di turismo cosiddetto “mordi e fuggi”, pensato in funzione di chi usufruisce delle crociere anziché degli abitanti locali.

L’alternativa è invece una diversa pianificazione del turismo in grado di mettere insieme le diverse risorse del territorio, creando un sistema che generi benefici diffusi e che permetta alla città di iniziare ad emanciparsi dal settore dell’acciaio e da quello militare.

© Riproduzione riservata