Con 23 voti di maggioranza contrari, il 16 luglio il parlamento ha comunque votato il rifinanziamento alla guardia costiera libica: 10 milioni, 3 in più della volta scorsa. Da una parte molti esponenti del Partito democratico e alcuni del Movimento 5 stelle criticano la politica migratoria fin qui seguita dagli ultimi governi (da quello di Paolo Gentiloni a oggi); dall’altra si continua sulla stessa strada dall’epoca dei decreti Minniti del 2017 (l’iniziatore del finanziamento alla guardia costiera libica). Nemmeno i decreti Salvini si riescono più a cambiare. La ricucitura tra Pd e partiti alla sua sinistra, uno dei punti di forza della segreteria Zingaretti, pare essersi bloccata su tale frangente, ridando fiato ai critici interni del segretario del Pd.

Tale stato confusionale non riguarda soltanto la sinistra o le scelte di politica interna nazionale (migrazioni, flussi, ius culturae o soli, integrazione, razzismo, ong ecc.) ma anche la politica estera. Vista dalla Farnesina, la Libia non è stata mai solo il luogo di partenza dei migranti africani ma soprattutto una sfida geopolitica essenziale per la sicurezza dell’Italia.

Da alcuni anni la nostra diplomazia guarda al “grande sud saheliano” con visione a lungo termine: dopo aver aperto ambasciate in Niger, Burkina Faso e Guinea, ora tocca a Ciad e Mali. Quella parte di Africa Occidentale non è più una zona riservata francese: Parigi stessa chiede la nostra presenza politico-militare, come quelle tedesca e spagnola. Dopo la guerra fredda, la nostra frontiera meridionale si è spostata verso sud di parecchie migliaia di chilometri. Per l’Italia la posta in gioco in Africa si articola oggi lungo quattro assi: le risorse, il terrorismo, lo sviluppo e i nuovi soggetti giunti nel continente nero.

La posta in gioco

Per quanto riguarda le risorse abbiamo poco da perdere e tanto da guadagnare. L’unica nostra posizione economica forte è quella dell’Eni, ormai dominante nel suo settore in Africa e la cui prevalenza non è messa in discussione. Gli attuali problemi in Libia sono più che compensate dalle scoperte di giacimenti in Egitto e Mozambico. L’Eni resterà il primo produttore di petrolio e gas in Africa per molti anni ancora.

Per tutto il resto dobbiamo solo rischiare: portare imprese a investire laddove non sono mai andate e le attendono molte opportunità. I settori principali a noi favorevoli sembrano essere le grandi infrastrutture (c’è Salini ma c’è spazio per altri); ferrovie; agrobusiness ed energia rinnovabile. In quest’ultimo settore l’Enel sta facendo passi da gigante. Pur potendo aumentare le esportazioni soprattutto verso la nuova classe media, per radicarsi bene in Africa occorre abbandonare una mentalità solo “export oriented”: gli africani cercano partner.

Sul terrorismo c’è da focalizzare bene ciò che accade nel Sahel, nord-est Nigeria, Congo, Somalia ed ora nord Mozambico. Serve una politica estera integrata con quella di sicurezza-difesa che non ci siamo ancora dati. Su alcuni quadranti abbiamo molto da offrire proprio per le nostre (ben note) capacità di mediazione e di peace keeping. Anche qui occorre rischiare politicamente.

Sulla cooperazione allo sviluppo stiamo andando indietro: la paura di farsi criticare in tempi di Covid-19 (“diamo i soldi agli italiani e non all’Africa”, scrive continuamente Libero) ha ulteriormente diminuito la cooperazione, retrocessa in pochi anni dallo 0,30 per cento del PIL (faticosamente raggiunto nel 2017-18) all’attuale 0,24. Non c’è più una simpatia diffusa a sostegno degli aiuti: la criminalizzazione delle ong e tutto ciò che l’ha circondata ha fatto cambiare lo spirito pubblico. Così perdiamo occasioni (la cooperazione oggi si connette alla partnership privata, cioè Ong+imprese), quindi perdiamo i soldi messi a disposizione dalla Unione europea (il più grande donatore globale) e capacità di influenza. Dobbiamo imparare a fare finanza sostenibile.

Infine la cosa più grave: l’arrivo dei nuovi attori in Africa. E qui si torna alla Libia dove tra politicamente corretto, ossessione migratoria e tiepidezza stiamo perdendo proprio tutto. Il nostro maggior problema è Ankara. La Turchia da tempo apre ambasciate, fa affari nel continente, si espande nelle antiche terre e vie commerciali dell’impero Ottomano (Somalia e costa occidentale dell’Oceano indiano). Oggi cerca di conquistare la Tripolitania, da sempre al centro degli interessi nazionali dell’Italia. Nel 1911 cacciammo la Turchia dalla Libia, oggi i turchi se la riprendono.

Gli errori in Libia

In Libia, a causa di un atteggiamento politicamente corretto (che celava la paura di rischiare una politica), abbiamo sostenuto in maniera acritica il governo di Fayez al Serraj, senza chiedere nulla alle milizie che lo appoggiano pur sapendo che si trattava spesso di trafficanti o giù di lì. Non abbiamo preteso nulla in cambio se non il blocco dei rifugiati e migranti.

I libici hanno avuto buon gioco a giocare con le nostre paure.

Il generale Khalifa Haftar, nemico giurato di Serraj che controlla (malamente) la Cirenaica ed è sostenuto dall’Egitto, ha attaccato Tripoli ad aprile del 2019 stracciando gli accordi precedenti. Serraj, circondato e nel panico, ci ha chiesto aiuto. Noi glielo abbiamo negato. Restare tiepidi e non scegliere mai ci ha reso alla fine invisi a tutti.

Sentendosi abbandonato, Serraj si è rivolto alla Turchia che ha prontamente reagito portando uomini (jihadisti siriani) e armi.

L’embargo sulle armi, unico vero successo italiano in Libia dal 2012, è andato in pezzi.

Ora in Libia si combatte con armi pesanti e il paese rischia di fare la fine della Siria: guerra aperta, bombardamenti, città distrutte, vita impossibile, libici sui barconi verso…Lampedusa.

E’ il paradosso: la nostra ossessione migratoria prima e la nostra tiepidezza poi hanno ottenuto l’effetto opposto. Alla fin fine se non si rischia qualcosa, non si raccoglie mai nulla. Per questo l’attuale polemica parlamentare sulla guardia costiera libica è roba da retroguardia: andava fatta anni fa, all’epoca dei decreti Minniti.

Discutere ancora sulla politica migratoria del bagnasciuga ci rende ridicoli: la storia è andata avanti. Ora è troppo tardi ed una prevedibile concatenazione di eventi ed effetti ci ha messo all’angolo. Ankara si prende tutto, anche ciò che di buono avevamo fatto.

Sulla delicata linea del fronte davanti a Sirte si sta giocando una partita molto più grande, una sfida che il nostro Parlamento non ha compreso e di cui non si parla sui media: quella del controllo del Mediterraneo e del dominio sull’islam sunnita.

Da una parte Turchia e Qatar; dall’altra Egitto ed Emirati. In mezzo i rimanenti Stati arabi che contano, in primis l’Arabia Saudita. Infine c’è una specie di arbitro inatteso: Mosca. I libici stessi sono ormai attori secondari, come anche Tunisia e Algeria. Le milizie libiche che l’Italia ha tanto blandito, ora non possono nulla contro Stati agguerriti come Turchia e Russia che trovano il modo di esserci “boots on the ground”.

Pare che i miliziani siriani filo-turchi sul terreno siano ormai 15.000. Dal canto suo l’Egitto ha schierato già le divisioni alla frontiera: vuole la Cirenaica (anche questo un antico disegno) ma soprattutto teme la Turchia di Erdogan, cioè il cuore pulsante dei Fratelli Musulmani, un vero spettro per il Cairo dei generali.

Il presidente egiziano Al Sisi non risponde sulla morte del ricercatore italiano Giulio Regeni perché si tratta di “quantité negligeable” di fronte alla “grande lotta” che si prepara tra musulmani per il controllo del mondo sunnita (dopo l’avvento e il declino dell’Isis, ecco un nuovo capitolo della “guerra islamica dei cent’anni” iniziata con la fondazione dei Fratelli Musulmani nel 1928 a Ismailia in Egitto).

Ora che deve vedersela con Ankara per la propria sopravvivenza, il regime del Cairo non può mostrarsi cedevole con Roma (ma anche per questo vuole le fregate). Resta da vedere cosa farà Ryad: medierà o si schiererà?

Cosa vuole Putin

Infine c’è Mosca: nel caos libico ha colto al volo l’opportunità di conquistarsi una base aerea a pochi minuti di volo da quella americana di Sigonella. Dopo la sconfitta della Guerra fredda, si tratta di un’altra vittoria che segue quella in Siria.

Può darsi che per il momento al presidente russo Vladimir Putin ciò basti e che di conseguenza decida di non schierarsi nella battaglia libica anche per non rovinare il rapporto faticosamente costruito con Erdogan. La sua reazione moderata sulla trasformazione di Aghia Sophia in Moschea starebbe a dimostrarlo: ha persino fatto infuriare il patriarca Kirill. Anche sul mare la Russia non interviene (per ora) e lascia greci e turchi fronteggiarsi pericolosamente davanti a Kastellorizo (l’isoletta di “Mediterraneo”) o trivellare al largo di Cipro.

Nemmeno gli Stati Uniti per il momento criticano Ankara perché a loro serve la Turchia (così sperano) per contrastare la penetrazione cinese nel continente. Ma questa è un’altra storia.

Nel Mediterraneo occidentale e in Libia la situazione è cambiata in un solo anno. Turchia e Russia occupano la scena, intente a proseguire la loro bizzarra ma efficace collaborazione competitiva. I rispettivi ministeri degli esteri hanno dichiarato che “la soluzione in Libia è politica e non militare” e annunciato di lavorare per un cessate il fuoco permanente e la ripresa del negoziato. Si profila forse per la crisi libica una soluzione russo-turca che escluda l’Europa e gli Stati Uniti?

Sarebbe il paradosso finale e un’umiliazione per l’Occidente. In questo caso Ankara, come sponsor di Serraj, diverrebbe il controllore supremo della rotta migratoria verso l’Italia, mentre già governa quella orientale e balcanica che preme sulla Grecia. Ankara prenderebbe l’Europa totalmente in ostaggio.

Ma c’è di peggio: c’è anche la possibilità di una guerra che terminerebbe con una probabile partizione della Libia, per l’Italia il peggiore scenario possibile. Per reagire a tutto questo ci vuole il coraggio politico di rischiare una presenza, non proprio la più frequente caratteristica dell’Italia istituzionale. Ma se non rischiamo oggi, saremo irrilevanti domani.

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