Fa una certa impressione ascoltare il progressismo italiano al cospetto della catastrofe afgana. Dal Pd pochi timidi bisbigli, e quei suoni smarriti sovrastati dallo strepito che sale dal giornalismo pentastellato e terzomondista, con fatwa urlate contro chi dissente e balle sull’Afghanistan ripetute come versetti del Corano; non una proposta che sia una. Poi duelli rusticani tra mullah, i fanr a pagamento del saudita Mohammed Bin Salman contro i mestieranti dell’indignazione, recitazione utile ad agganciare lettori a sinistra. Se escludiamo alcuni interventi illuminati, un inutile fracasso. Proviamo allora a tapparci le orecchie e a fissare alcuni punti utili a raccapezzarci.

Il caos regionale

A Pakistani paramilitary soldier, right, and Taliban fighter stand guard on their respective sides at a border crossing point between Pakistan and Afghanistan, in Torkham, in Khyber district, Pakistan, Saturday, Aug. 21, 2021. In the current situation of Afghanistan, pedestrian movement has limited in Torkham border, only stranded people in both sides and trucks taking goods to Afghanistan can passes through this border point. (AP Photo/Muhammad Sajjad)

Il problema col quale dobbiamo urgentemente misurarci non è solo l’Afghanistan ma l’intera Asia centrale, dove la war on terror ha prodotto disastri. I regimi cooptati da Washington sono stati di fatto autorizzati a reprimere sbrigativamente qualsiasi dissenso e a comprimere i grumi di società civile, col risultato di produrre più terrorismo di quanto ne abbiano distrutto.

Se a questo aggiungiamo i guasti causati dalle feroci repressioni operate autonomamente da Stati non alleati degli occidentali, non sorprende che oggi l’Afghanistan sia la miccia che brucia sull’uscio di un’immensa polveriera. Dall’Uzbekistan alla porzione di Xinjang che i secessionisti chiamano Turkestan, al Tagikistan, al Kashmir, al Sistan iraniano, al Belucistan pakistano, solo per citare le realtà maggiori, s’intrecciano piani e percorsi di gruppi armati islamisti e indipendentisti. Quelli che hanno relazioni storiche con i Talebani ora potrebbero trovare in Afganistan un santuario dove saldare nuove alleanze, armarsi, rifiatare.

Qualcuno a Washington penserà: meglio così, l’Asia centrale è lontana, se esplode scaglierà una tempesta di schegge sui nostri avversari cinesi, iraniani e russi. Ma anche se ritenessimo realistico questo ragionamento, l’Europa non può permetterselo, non è così lontana, in ogni caso sarebbe meta di giganteschi spostamenti di popolazioni in fuga: dunque è obbligata a immaginare una nuova architettura della propria sicurezza. Una componente essenziale non potrà che essere una certa difesa dei diritti umani, idea assente dalla war on terror.

Il livello politico e i comandanti

Taliban fighters stand guard on their side at a border crossing point between Pakistan and Afghanistan, in Torkham, in Khyber district, Pakistan, Saturday, Aug. 21, 2021. In the current situation of Afghanistan, pedestrian movement has limited in Torkham border, only stranded people in both sides and trucks taking goods to Afghanistan can passes through this border point. (AP Photo/Muhammad Sajjad)

I Talebani sono una casta guerriera strutturata come arcipelago di milizie almeno in parte autonome. Il loro “ufficio politico” ha un controllo limitato sui vari comandanti, che infatti qua e là, ammazzando e reprimendo, hanno rovinato i tentativi del vertice di vendere all’estero un’immagine accettabile del ‘movimento’.

In quel vertice c’è gente con cui si può dialogare, a cominciare dal responsabile per la politica estera Sher Mohammed Stanikzai. Lo incontrai a Kandahar nel 1996, quando era giovane ministro della Sanità dei Talebani intelligente, riflessivo, istruito, l’unico del gruppo in grado di parlare inglese, e anche per questo delegato alle relazioni internazionali. Però i Talebani non gli somigliano.

I loro quadri combattono da decenni e sanno fare (bene) solo quello. Hanno combattuto i sovietici, gli hazara, i panshiri, gli occidentali… e nelle retrovie, chiunque non s’inchinasse davanti ai loro kalashnikov, in primo luogo le donne non totalmente sottomesse. Non hanno una classe dirigente capace di governare né alcuna vocazione a farsi carico dei problemi della popolazione non pashtun.

Qualunque impegno sottoscriva il vertice politico, ai loro occhi una pace vera, ‘inclusiva’, è una terribile iattura, un disastro economico e sociale, una resa a chi li disprezza. Dovrebbero rinunciare al potere assoluto, all’aura di cui adesso godono presso gli jihadi del mondo intero, al privilegio di incutere paura, alle spoglie del nemico, allo status che li trasforma in predatori autorizzati di ragazze e di proprietà. Finché non saranno destrutturati e debellati insieme al loro emirato, l’Afghanistan non sarà mai il Paese stabile sognato dalla diplomazia ottimista.

Come negoziare

Taliban fighters stand guard at a checkpoint in the Wazir Akbar Khan neighborhood in the city of Kabul, Afghanistan, Sunday, Aug. 22, 2021. A panicked crush of people trying to enter Kabul\'s international airport killed several Afghan civilians in the crowds, the British military said Sunday, showing the danger still posed to those trying to flee the Taliban\'s takeover of the country. (AP Photo/Rahmat Gul)

In questo momento il negoziato potrebbe rivelarsi l’arma più affilata per sfasciare i Talebani, se riuscisse a porre in contrapposizione le varie fazioni: in primo luogo strappando ai mullah cosiddetti ‘pragmatici’ aperture reali su donne e ‘inclusioni’ ampie di ex nemici. Ma regalare aiuti o riconoscere l’emirato in cambio di impegni astratti sarebbe un auto-inganno pericoloso. Più saggio mettere a frutto le diffidenze fortissime che l’emirato suscita in tutta l’area, perfino in capitali ufficialmente non ostili ai Talebani.

Tutt’altro che minuscola, la società civile pakistana ha ragioni per temere che la rinascita dell’emirato afghano galvanizzi l’alleanza occulta, giù ora potentissima, che in Pakistan da tempo allinea apparati militari, circoli qaedisti, partiti islamisti, generali con l’atomica e ambizioni grandiose.

 Pechino non può non sapere che qualsiasi promessa mullah Baradar abbia fatto, non v’è alcuna certezza che possa mantenerla. L’Iran non può dimenticare l’ostilità dei Talebani agli sciti e il massacro del personale del consolato iraniano a Mazar-i-Sharif. E nella memoria russa c’è la memoria della guerra ferocissima persa dai sovietici. Queste percezioni andrebbero messe a frutto.

Se fino a ieri, e malgrado l’aggressività sino-fobica dell’amministrazione Trump, i soldati occidentali proteggevano gli ingenti investimenti cinesi in Afghanistan nel minerario, non si vede perché in futuro gli europei non debbano giocare con Pechino una partita che preoccupa gli uni e gli altri. Ma Xi dovrebbe quantomeno mitigare la repressione degli uiguri, gli europei riporre la retorica anti-cinese incitata da un atlantismo impettito.   

La nuova guerra civile?

 Presto potrebbe manifestarsi un’opposizione armata ai Talebani. Al momento quel che si mostra – uzbechi riparati in Uzbekistan, tagichi asserragliati nel Panshir e, se reggeranno, in futuro assistiti dal tradizionale alleato, l’India - non rappresentano un rischio reale per l’emirato. Ma la prospettiva cambierebbe se si muovessero gli hazara. In genere sciiti, in genere convinti di essere i discendenti dell’Orda d’oro mongola, sono stati per secoli, e fino all’arrivo degli occidentali, afghani di serie C.

Sottomessi e massacrati anche dai Talebani, hanno cercato la protezione delle Guardie rivoluzionarie iraniane. Teheran ha garantito la loro non belligeranza ai Talebani, un contributo non da poco alla liquefazione delle Forze armate afghane. Ma la neutralità potrebbe essere revocata se gli hazara non ottenessero dall’emirato la considerazione cui anelano; e in quel caso rientrerebbero in Afghanistan anche le temute milizie hazara che hanno combattuto in Siria.

Questo rischio è ben presente al vertice politico dei Talebani, ma nella mentalità dei loro guerrieri un hazara è uno sciita, un ripugnante eretico. Se gli hazara scendessero in campo il paese riprecipiterebbe nello scontro tra milizie etniche cominciato all’indomani della fuga dei sovietici, senza alcun vantaggio per gli afghani e per la stabilità dell’Asia centrale.

Altra cosa sarebbe se le milizie, o ciò che ne rimane, si saldassero a forme resistenziali probabilmente destinate a rafforzarsi nel futuro prossimo, a mano a mano che aumenterà l’insofferenza delle città e dei giovani. Se questi percorsi confluissero in un Fronte nazionale, in una Resistenza patriottica, l’Europa farebbe bene ad offrire aiuti: è l’unica scommessa sulla quale val la pena di puntare.

Il rapporto Europa-Stati Uniti

E’ ormai evidente che la relazione Europa-Usa vada riconfigurata, come sostengono anche assennati vertici militari (per esempio il generale Claudio Graziano, presidente del Comitato militare della Ue, il primo nucleo della difesa europea).

Le minacce che l’Asia centrale staglia sull’Europa, la vocazione al soliloquio del Pentagono e della destra ‘America first’, la comprovata inettitudine della war on terror nella conduzione americana, tutto questo impone agli europei di pretendere un ruolo ben più importante nelle relazioni atlantiche. Ma una simile assunzione di responsabilità non è esente da gravami e implica il consenso della società civile. Che andrebbe convinta e indotta a qualche riflessione, impresa non facile a giudicare dallo spettacolo offerto in questi giorni dai media italiani.

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