L’Africa devastata dalle guerre, ma gli affari non si fermano

Oggi il fatto di non riuscire a chiudere le guerre o a risolverle politicamente, non rappresenta più uno scandalo dell’impotenza politica o della rassegnazione umana: viene piuttosto considerato un dato normale, prevedibile, quasi naturale anche perché ha poche conseguenze sull’economia globale. In Europa le guerre della ex Jugoslavia non sono state considerate un segnale d’allarme: i demoni della Seconda guerra mondiale potevano rinascere e sfidare le democrazie. Quella serie di conflitti non era inevitabile ma si preferì considerarli la fine di qualcosa che doveva compiersi. Si commentò che la Jugoslavia era un «paese finto» e non rispettoso delle diverse nazionalità, senza chiedersi nulla sugli effetti nel resto d’Europa. Quale paese è realmente omogeneo? Con l’annessione della Crimea prima e l’aperta aggressione russa all’Ucraina poi, ci si è accorti troppo tardi dell’errore commesso. Allo stesso modo vengono giudicate le guerre in Africa: stati fragili, frontiere artificiali, corruzione, mancanza di sviluppo e presenza di materie prime sembrano giustificare un endemico stato di guerra permanente o a bassa intensità. Tali conflitti vengono valutati come “tollerabili” perché non mettono in discussione la stabilità globale. Anche questo è uno sbaglio. Ambasciate e accordi, il valore politico del viaggio di Tajani e Piantedosi in Africa Malthusianesimo geopolitico Guerre come quella della Repubblica Democratica del Congo, con più di 5 milioni di morti, prosegue da molti anni e si è trasformata in un sistema di conflitti capace di generarne di nuovi. Le guerre degli anni Novanta del secolo scorso in Liberia, Sierra Leone, Somalia o Ruanda con il genocidio, quelle più recenti in Sudan e Sud Sudan o nel Corno, sono ritenute un prezzo che si può pagare. Maggiore attenzione producono quelle del Sahel ma solo perché c’è di mezzo una forma di jihadismo che allarma e c’è la presenza della Wagner russa. Alcuni giungono a sostenere che le guerre d’Africa rappresentano la logica continuazione delle indipendenze, durante il quale non fu possibile cambiare frontiere prestabilite. Secondo tale teoria gli stati che la colonizzazione aveva disegnato non sarebbero più sostenibili e andrebbero “lasciati fallire” mediante una forma di “decertificazione”, lasciati cioè morire per riconoscere al loro posto nuove entità più viabili. Si tratta di una sorta di malthusianesimo geopolitico basata sull’idea che in Africa gli stati tendono a fallire. Le rigidità imposte dalla Guerra fredda, dall’euforia della decolonizzazione e dalle regole di sovranità avrebbero fatto ignorare quella che i sostenitori di tale tesi considerano una “semplice verità”: dopo la caduta del muro di Berlino «i processi storici sono ripresi e un limitato numero di stati sta fallendo (…) ma la comunità internazionale sembra determinata a non fare altro che aiutare a risorgere ciò che non ha funzionato» scriveva Jeffrey Herbst già nel 2003. In tale analisi si sente l’eco di un’arroganza (chi ha diritto di decidere se uno stato è funzionale o no?) che promana dall’ideologia liberista della «distruzione creatrice». Più preoccupante il fatto che non spaventa che ogni cambiamento debba avvenire forzatamente tramite il conflitto: ciò è considerato un semplice dettaglio. Ripartire dalla sicurezza umana. Una via per lo sviluppo dell’Africa Dal Corno d’Africa al Sudan È quello che avviene nel Sahel e soprattutto nel Corno d’Africa. In quest’ultima regione Etiopia, Eritrea e Somalia stanno affrontando la sfida di una forte ricomposizione che mette a rischio le frontiere internazionali. La Somalia è divisa in varie entità che cercano una forma di autonomia, se non di indipendenza com’è il caso del Somaliland. Ma tale ambizione provoca scosse a ripetizione e lo stesso Somaliland affronta divisioni interne non meno che il resto del paese. La guerra tra Eritrea e Etiopia (1998-2000) è finita con la pace del 2018 dopo un lungo stallo, ma non ha portato stabilità definitiva alla regione. Il Tigray è entrato in ribellione nel 2020 contro Addis Abeba, aprendo una nuova fase di ostilità che ancora non è terminata, con un intreccio di alleanze mai definitivo e difficile da capire dall’esterno. Nel Congo orientale una vera e propria rete di conflitti ha reso le regioni del Kivu (nord e sud) e dell’Ituri terre di nessuno, dove centinaia di fazioni e milizie controllano un territorio ricco di minerali e terre rare ma poverissimo per ciò che concerne la popolazione. In questa regione afferiscono interessi esterni dei paesi circonvicini, tra cui Ruanda e Uganda, ma non solo. Qualcosa di simile sta avvenendo in Sudan dove il paese è spaccato in due tra Forze armate sudanesi (Saf) e milizie delle Rapid Support Forces (Rsf), prima alleate. Molti la chiamano una «guerra di mercato» perché basata su interessi (internazionali) per le ricche risorse locali tra cui la ricercatissima gomma arabica (con cui si fa la Coca Cola), il bestiame (tre milioni di capi venduti ogni anno nel Golfo), oro (con la partecipazione di Wagner) e terre rare. Il Sudan rischia di non potersi più ricomporre anche per l’intervento esterno di stati attirati da una parte delle ricchezze locali e che preferiscono la prosecuzione della situazione attuale. Mali, Niger e Burkina vivono sotto la minaccia di una forma di jihadismo locale capace di amalgamarsi con alcune rivendicazioni lovali, come quelle delle minoranze tuareg e amazigh (forse anche tebu). Il nord Mozambico attraversa una fase difficile di fragilità e precarietà, stretto tra l’abbandono del governo centrale e una ribellione jihadista che deve molto al rancore sociale di una parte delle popolazioni. Com’è noto la Libia è spaccata in due o tre pezzi senza che la comunità internazionale dimostri un reale interesse alla sua riunificazione. Colonialismo e discariche umane, così Trump sceglie l’Africa per deportare migranti Distruggere gli stati Tutto si svolge come se il mercato e le varie forme di business globalizzato si adattino facilmente a qualunque situazione e non esprimano la necessità di fermare i conflitti africani. Sia i commerci legali sia ancor più quelli al margine della legalità o francamente criminali, proseguono accomodandosi alle più diverse situazioni. Coltan e terre rare continuano a fluire dal Congo. Quest’anno il Sudan ha aumentato la propria quota di esportazione di bestiame verso l’Arabia Saudita. Rubini, legno di contrabbando e altre risorse escono dal Mozambico settentrionale. Oro, uranio e terre rare vengono estratte nel Sahel come il petrolio dalla Libia. Le guerre africane sono politiche come tutti i conflitti, ma hanno la caratteristica di distruggere gli stati, già infragiliti da crisi economiche a ripetizione, senza che nessuno pensi che sia urgente ripararli e/o riunificarli. Somalia e Libia ci hanno insegnato che distruggere uno stato è abbastanza semplice ma difficilissimo ricomporlo. Gruppi, fazioni, milizie, etnie ecc. sono in grado di connettersi ad una parte del commercio globale (legale o no) e di continuare a sopravvivere senza l’esistenza delle istituzioni. La “decertificazione” è avvenuta de facto: non per decisione politica ma per frammentazione anarchica. La sovranità di cui tanto parlano leader vecchi e nuovi, è perduta in favore di poteri privati, localizzati o di filiera, di cui il pianeta è pieno. Una pratica che rischia di fare scuola e di essere esportato anche altrove. Benedetto pallone. Così in Africa aiuta l’emancipazione