La morte inaspettata del presidente ciadiano Idriss Déby, l’autogolpe dei suoi fedelissimi e della sua famiglia e la presa del potere da parte di suo figlio assistito dai generali dell’esercito più vicini al clan, stanno provocando una serie di violenze tra la popolazione ciadiana. Molti si ribellano perché vedono la possibilità di liberarsi di un regime duro che in trent’anni ha messo all’angolo ogni opposizione; altri lo fanno per avversità etniche; altri ancora perché sostenitori dei ribelli. Infine vi sono coloro che sperano in una reale democrazia a venire. La cosa più sconcertante è che tutti bruciano in piazza le bandiere francesi accusando la Francia (e con essa tutto l’occidente) di favorire la dittatura militare in nome della stabilità. Al di là di ciò che accadrà in quella zona d’Africa, è questa la cosa su cui soffermarsi: sia in Mali prima che in Ciad oggi, la popolazione spontaneamente critica la Francia malgrado sia scesa in campo per combattere i jihadisti, pagando un prezzo di sangue. Negli ultimi anni, in una zona del continente tradizionalmente molto francofona e francofila, i sentimenti di vicinanza con l’antica metropoli sono venuti meno quasi senza che se ne capisse la ragione. Non basta puntare il dito sul neocolonialismo: c’era già prima ma era controbilanciato da un sentimento di prossimità culturale e simbolica molto forti. Ora tutto questo è improvvisamente scomparso e non si tratta di una buona notizia.

Rivolta delle identità

Ogni giorno la globalizzazione provoca reazioni: insurrezioni della diseguaglianza, rivolte delle identità, rifiuti del sistema, cambiamenti di umore. La combinazione tra occidentalizzazione degli stili di vita e interconnessione delle economie avviene in maniera fortemente contrastata. Sembra che alcune parti di mondo, civiltà o ambiti identitari, rifiutino le mescolanze fino a ora accettate. È in atto come una rottura sentimentale. La fine del sistema statico della Guerra fredda ha rappresentato, com’è noto, la fine delle ideologie. Al loro posto assistiamo all’avvento delle culture, delle identità o delle emozioni che sono di per sé stesse molto volubili. Secondo il politologo francese Dominique Moïsi, le relazioni tra gli stati e i popoli sono oggi rette soprattutto da una «geopolitica delle emozioni», le più significative tra le quali sono la speranza, l’umiliazione e la paura. Ogni attore internazionale getta sulla realtà uno sguardo diverso, mosso da un’emozione che ne influenza le scelte politiche: «In un mondo dominato dall’identità, siamo meno definiti dalle nostre fedi politiche e dalle nostre idee e di più dalla percezione della nostra essenza». Le emozioni, per popoli, nazioni e culture, non sono soltanto sentimento: diventano cultura e poi politica. La paura, ad esempio, diventa cultura del disprezzo per l’altro perché di altra religione, di altra etnia o diverso. La cultura del disprezzo è antica come la storia dell’uomo ma, in questi tempi di globalizzazione, ha una reviviscenza impressionante.

Fissare le identità

Per chi non ama la globalizzazione cioè la contaminazione tra diversi, “essenzializzare” diviene dunque una scappatoia: credere a un mondo fatto di identità fissate, inconciliabili, irreversibili, che si scontrano o si oppongono in modo irrimediabile. Tuttavia anche su questo c'è dibattito. L’essenza delle culture e delle civiltà è continuamente sfidata dalla contemporaneità: piuttosto che realtà immobili legate alle radici, le civiltà stesse reagiscono secondo gli eventi e, innanzi tutto, sono meno coese al loro interno di quanto si pensi. Si resta così a metà strada tra il passato identitario che definisce e un oggi in cui ci si scontra con altro. È questa la fase attuale del jihadismo posto tra la separazione dal mondo e l’utilizzo dei mezzi ultramoderni di comunicazione; tra predicazione dell’età dell’oro del primo islam e radicamento dentro culture diverse. Ciò crea in quell’universo contraddizioni e divisioni anche violente.

La fine delle ideologie rappresenta la fine delle grandi narrazioni, dei grandi disegni, dei programmi, dei progetti. Siamo entrati in quello che il grande antropologo francese Georges Balandier chiama il «nuovo Nuovo Mondo», nel quale siamo «al medesimo tempo degli indigeni e degli estranei». Di conseguenza tutti si sentono spaesati. Non è ciò che stanno vivendo maliani e ciadiani oggi? Simbolicamente stare nel “pré carré” francese rappresentava non solo una dipendenza ma anche una sicurezza e un punto di orientamento. Oggi, sfidato dalle instabilità e dai terremoti geopolitici, tale universo è scomparso e per questo c’è chi resta spaesato e si ribella. Lo spaesamento travolge la vita quotidiana: il vecchio mondo, di cui si erano imparati segni e simboli, non c'è più: tutto è in grande e generale rimescolamento proprio come le frontiere del Sahel. Si è andato diffondendo tra la gente un sentimento di disorientamento, comune a tutte le società. Molti si chiedono cosa fare davanti a problemi globali e complessi, le cui cause si trovano oltre i confini locali o nazionali, come le ripetute crisi economiche, l’improvvisa comparsa dei jihadisti, la carenza di proposte (ormai rare e terribilmente semplificate), l’affanno dei leader, l’apatia di classi dirigenti – si pensi all’immobilismo di quella del Mali – che hanno perso il gusto dell’iniziativa politica e si limita a “gestire le crisi” nutrendosi di esse. Sembra che gli uomini e le donne di oggi non si aspettino molto, forse nulla, di buono dal futuro che appare oscuro e denso di pericoli. Così Andrea Riccardi descrive tale inclinazione globale: «Davanti a un mondo così complesso siamo tutti un po’ incompetenti… Le notizie comunicate dai media sono tante, troppe per essere assimilate… Ci manca la capacità di assimilare tanta informazione. A volte siamo presi da un senso di impotenza di fronte a situazioni lontane e poco comprensibili... Oggi la complessità disorienta e confonde». Uno degli effetti di tale spaesamento e disorientamento è il cadere nella trappola complottista: credere a congiure e a dietrismi senza fine, esattamente come sta accadendo a Bamako.

Reazioni violente

Davanti a relazioni instabili e a tensioni permanenti, le reazioni possono essere violente. Anche se le identità hanno una storia propria, nascono e muoiono, si evolvono a contatto con altre, il loro furioso “ritorno” – tipico della nostra epoca – fa temere ogni giorno lo scontro. Ne sappiamo qualcosa anche in Europa dove rivivono regionalismi o localismi del passato, è forte la spinta del comunitarismo nelle città e la ghettizzazione dei quartieri, si affievolisce il ruolo dello stato e delle aggregazioni politiche sovranazionali come l’Unione europea. Parallelamente in Africa rinascono etnicismi, perdono forza i legami nazionali, si indeboliscono le istituzioni statali e iniziano a essere disprezzati i sentimenti patriottici che una volta sembravano forti, malgrado tutto.

Pur sapendo che non esistono società, culture o dottrine politiche che non abbiano subito l’influenza della storia e di chi le circonda o le compone, molti si rifugiano nell’affannosa ricerca di “autenticità”.

In Africa ciò produce un allontanamento dall’Europa ed è manipolato dai jihadisti che si presentano come più inculturati. Tuttavia la purezza culturale è un’illusione e questo vale anche per loro. Sostiene Balandier che: «L’autentico, il puro, il primigenio, sono prodotti dell’ideologia piuttosto che una realtà». «Ogni civiltà muore della sua purezza» diceva Léopold Sédar Senghor, educatore, poeta e politico africano, il padre dell’indipendenza senegalese. Tale purezza, vanamente ma ansiosamente ricercata, nello spaesamento diviene una nuova ideologia non meno dogmatica delle ideologie politiche del passato. Di ciò si nutrono i nuovi jihadisti africani che da una parte offrono una grammatica della rivolta per rispondere al rancore sociale e alla rabbia da abbandono; dall’altra propongono anche una narrazione “africanizzata” della loro lotta. Passando da una rottura emozionale con il passato, possono alla fine creare una nuova identità in cui sia reciso ogni legame con l’Europa. Tale è la sfida in atto.

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