Ora che si sta (un po’) diradando la nebbia sui torbidi russi di sabato scorso, è possibile tracciarne un provvisorio bilancio. Ed è evidente che Vladimir Putin ha vinto. Almeno nel breve periodo. Sui tempi medio-lunghi si vedrà.

La constatazione ha un corollario: lo zar di Mosca è sottovalutato da quando è cominciata la guerra in Ucraina, si scambiano i nostri desideri con la realtà. L’esegesi certosina dei suoi gesti, delle sue parole, della sua immagine, ha fatto trarre conclusioni frettolose circa una sua eventuale detronizzazione.

È malato, ha un tumore, è debole, non controlla più parti dell'apparato dello stato, ci sarà una congiura contro di lui, è delegittimato. Previsioni passate in archivio.

Quanto al sabato 24 giugno del presunto tentativo di golpe, appunto il sabato dei torbidi, i risultati a meno di una settimana dicono che, se ha mai vacillato, si è ripreso prontamente il comando. Partiamo dalla fine.

Fonti di intelligence, avvalorate da testate di prestigio come il Financial Times, hanno spifferato dell’arresto di Sergej Surovikin, generale controverso, già protagonista in negativo del tentato golpe del 1991 a Mosca e poi graziato, eroe della campagna di Siria, comandante delle forze armate in Ucraina e infine al vertice delle forze aerospaziali.

Sarebbe stato a conoscenza in anticipo dei piani di Evgenij Prigožin, il capo della Wagner e li avrebbe agevolati. Sarebbe in corso, all’interno delle forze armate, un repulisti degli ufficiali di dubbia fedeltà, come al solito nelle dittature lo si evince non dalle informazioni ufficiali ma dalle sparizioni improvvise dall’arena pubblica.

Quanto a Prigožin si trova in un esilio niente affatto dorato il Bielorussia, ospite-vigilato di Aleksandr Lukashenko, il fedelissimo di Mosca, dopo aver tentato, fallendo, l’azzardo della vita. Voleva sfidare il re di denari avendo nelle mani il due di briscola.

Si era messo in testa l’idea meravigliosa di diventare, al minimo, ministro della Difesa al posto di Sergej Shoigu, una vecchia volpe al potere in vari ruoli fin dal 1994, e da quella posizione avrebbe poi esautorato il generale Valerij Gerasimov, per ironia della sorte l’uomo che con la sua dottrina aveva di fatto favorito la nascita della milizia semi-privata più potente del mondo.

Credeva che Putin fosse disposto a scegliere lui e buttare a mare la gerarchia dell’Armata russa, per i numerosi servigi al suo sovrano, comprese numerose operazioni sporche in vari teatri di guerra, in Siria, in Libia, in Centrafrica e, da ultimo, nella presa della città-simbolo ucraina di Bakhmut.

Fidava, Prigožin, sulla popolarità del suo piccolo esercito, diventato leggendario in patria grazie a una narrazione epica favorita, direttamente e indirettamente, dallo stesso Cremlino e confermata dalla calorosa accoglienza della gente di Rostov sul Don da dove è partita la velleitaria marcia su Mosca.

Il leader della Wagner, ex cuoco di Putin, non aveva tempo da perdere, doveva mettere Putin davanti al dilemma “o io o Shoigu” dopo che era stato deciso che il suo gruppo dal 1° luglio sarebbe stato inquadrato nei ranghi dell’esercito regolare. Fine del potere, fine dei bottini di guerra e dunque dell’arricchimento, una normalizzazione obbligatoria per frenare le smisurate ambizioni cresciute con i successi sui campi di battaglia.

È stato un errore di hybris, di tracotanza, sfidare con soli 5mila soldati (sui 25mila a disposizione) un apparato sicuramente meno motivato e peggio addestrato però forte potenzialmente di un milione e mezzo di uomini.

Col senno di poi, bisogna rileggere con altri occhiali quella che sembrava una irresistibile avanzata di 700 chilometri verso la capitale e che il mondo ha seguito sbalordito. Alla luce dei fatti Putin ha giocato come il gatto col topo.

Un topo che pensava di poter contare sull’ammutinamento di qualche reggimento in nome di una fratellanza tra militari costruita nelle trincee ucraine. Ma via via che la marcia si avvicinava al suo obiettivo nessuno si era aggiunto ai golpisti e si erano ritratti spaventati anche i presunti simpatizzanti, ecco che verso sera Prigožin è stato costretto a far di conto.

Alle porte di Mosca lo aspettava il massacro dei suoi, era pazzia persino l’immaginare di prendere una città con soli cinquemila effettivi. Senza contare che, stando ad alcune indiscrezioni, uomini dei servizi segreti si erano incaricati di prendere in ostaggio i familiari del capi della rivolta.

Risultato. La Wagner depotenziata, parte riparata in Bielorussia, il grosso ancora operativo in Africa per poter continuare a fare razzie per se e gli interessi del Cremlino. E perché tutti insieme e senza i lauti stipendi sarebbero troppo pericoloso averli in casa. Morale.

È il destino dei soldati di ventura, iscritto nel termine con cui li si definisce, mercenari. Un dittatore sceglierà sempre l'istituzione più potente e collaudata per garantirsi la permanenza sul trono, quella che detiene in esclusiva l’uso in questo caso (il)legittimo della forza: l’esercito regolare.

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