Con la recente elezione di Gustavo Petro come presidente della Colombia, si è parlato in America Latina di nuova “marea rosa” (o pink tide). Un concetto nato all’inizio degli anni Duemila per indicare la preminenza di governi di sinistra in quasi tutti i paesi della regione.

Dopo quasi due decenni, un processo simile sembra essere in atto. Dal 2018, infatti, con l’elezione in Messico di Andrés Manuel López Obrador, si sono registrati una lunga serie di successi elettorali per le forze di sinistra: dalla Bolivia di Luis Arce, passando per l’Argentina con Alberto Fernández, fino ad arrivare ai più recenti risultati ottenuti da Pedro Castillo in Perù, Gabriel Boric in Cile, Xiomara Castro in Honduras e, per ultimo, Gustavo Petro in Colombia.

President Gustavo Petro raises his fist at the end of his inauguration speech in Bogota, Colombia, Sunday, Aug. 7, 2022. (AP Photo/Fernando Vergara)

Fattori comuni

Seppur con importanti differenze a livello nazionale, è possibile individuare degli elementi comuni a questa tendenza.

In primo luogo, il contesto elettorale di molti paesi della regione, come Cile, Colombia, Perù, è stato caratterizzato da un diffuso malcontento sociale, esacerbato dalla pandemia e spesso sfociato in imponenti proteste di piazza. Tale malcontento è il frutto della stagnazione economica che la regione attraversa ormai da anni e che non sembra destinata a risolversi nel breve periodo.

Secondo i dati del Fondo monetario internazionale, infatti, l’economia regionale crescerà di appena il 2,4 per cento nel prossimo anno mentre il tasso di povertà assoluta è passato dal 10,7 per cento del 2019 al 13,8 per cento del 2021.

In secondo luogo, l’elemento comune alle recenti elezioni latinoamericane è stata l’insoddisfazione generalizzata verso i partiti storici espresso attraverso l’elezione di candidati ritenuti “estranei” alla vita politica tradizionale, come nel caso di Castillo in Perù, di Boric in Cile e in parte anche di Petro in Colombia. Tale insoddisfazione emerge chiaramente anche dai dati riportati dal Latinobarómetro sulla fiducia dei cittadini latinoamericani nelle istituzioni democratiche, diminuita costantemente tra il 2010 e il 2018, scesa dal 63 per cento al 48 per cento.

Il nuovo quadro economico

Sono tuttavia numerose le differenze che intercorrono tra la fase attuale e il periodo di inizio millennio. Innanzitutto, a esser cambiato profondamente è il quadro economico internazionale; la prima ondata rosa, infatti, si sviluppò in un contesto di forte espansione dei prezzi delle materie prime.

Per una regione come quella latinoamericana, fortemente dipendente dal settore delle esportazioni, il commodity boom dei primi anni Duemila ha permesso una sostenuta crescita economica che, a sua volta, ha fornito le risorse necessarie per l’implementazione di imponenti programmi sociali, che solo più avanti si sono rivelati insostenibili per le economie regionali.

Ad oggi, il contesto internazionale, complice anche la pandemia da Covid-19 e la guerra in Ucraina, risulta essere estremamente più instabile e, sommato a una crescente inflazione e a una situazione macroeconomica sfavorevole, rende più complesso trarre beneficio dalle esportazioni e, quindi, rispettare l’agenda sociale che i neoeletti governi si sono prefissati.

Inoltre, le forze progressiste arrivate al governo godono di un appoggio popolare non paragonabile a quello dei primi anni Duemila. I governi di Chávez, Morales, Lula e Correa hanno trasceso il semplice mandato ottenendo larghe vittorie elettorali, consolidate successivamente attraverso importanti politiche redistributive (e clientelari). Al contrario, quasi tutti gli attuali governi eletti sono stati formati con maggioranze risicate.

Il caso cileno offre interessanti spunti di riflessione: Gabriel Boric ha infatti incassato, a distanza di pochi mesi dalla sua elezione come presidente, una pesante sconfitta nel referendum del passato 4 settembre in cui il 62 per cento dei cittadini ha bocciato il nuovo testo costituzionale, fortemente sostenuto dall’inquilino del palacio de la Moneda. Lo stesso accade in Perù e in Colombia, dove le maggioranze parlamentari sono estremamente limitate, il che comporterà un quasi inevitabile ridimensionamento della portata dei programmi di riforma dei rispettivi presidenti.

Marea verde?

In aggiunta, la seconda pink tide sembrerebbe essere più green della prima, tanto che è stata definita da alcuni analisti come “marea verde”. Leader come il cileno Boric e il colombiano Petro, infatti, puntano molto sul tema ambientale. In modo differente, però, rispetto a quanto fatto, ad esempio, da Rafael Correa in Ecuador ed Evo Morales in Bolivia, che durante lo scorso decennio hanno sì promosso la protezione dell’ambiente e dei diritti dei popoli indigeni, ma hanno anche dato priorità a grandi progetti estrattivi, producendo non poche tensioni con i movimenti ambientalisti nazionali e regionali.

Per leader come Boric e Petro, gli impegni in materia ambientale richiedono difficili compromessi soprattutto a livello economico, impegni che la prima marea rosa non aveva assunto. D’altra parte, però, l’emergenza climatica è di gran lunga più rilevante a livello globale oggi rispetto a due decenni fa.

Processi di integrazione

Infine, il nuovo giro hacia la izquierda che sta vivendo il subcontinente latinoamericano potrebbe avere importanti ripercussioni anche sul processo d’integrazione regionale. Storicamente, il regionalismo latinoamericano è stato intimamente legato all’alternanza tra governi di diversa provenienza ideologica.

Ne è un esempio l’esperienza dell’Unión de naciones suramericanas (Unasur): nata nel 2004 dalla volontà di alcuni presidenti di creare una piattaforma di dialogo politico regionale indipendente dagli Stati Uniti, fu sostituita qualche anno dopo dal Foro para el progreso y desarrollo de América del sur (Prosur), progetto creato per volontà politica di Sebastián Piñera (Cile) e Iván Duque (Colombia) nel contesto di un ritorno di forze conservatrici a livello regionale.

Altre esperienze, più strutturate a livello istituzionale, come il Mercado común del sur (Mercosur) e Alianza del Pacífico, stanno parimenti vivendo un momento di crisi dettato dalle divergenze politiche fra i paesi membri.

Il passaggio a sinistra di molti dei governi della regione ha per questo sollevato in certi ambienti la discussione sulla possibilità di rilanciare vecchi progetti di integrazione come l’Unasur, e in tal senso l’elezione di Lula (primo ideatore del progetto) potrebbe giocare un ruolo fondamentale.

Tuttavia, le sole affinità sul piano ideologico corrono il rischio, come già successo in passato, di non essere sufficienti a colmare le divergenze tra i singoli paesi della regione. Il processo di integrazione necessita infatti di colmare lo storico deficit istituzionale delle organizzazioni esistenti.  

Oltre a ciò, ogni paese appartiene a un blocco economico e segue la propria logica nel fortificare i rapporti commerciali ed economici con gli Stati Uniti, piuttosto che la Cina o l’Unione europea. Per alcuni paesi, come il Cile ad esempio, le relazioni commerciali con mercati distanti come quello di Cina, Stati Uniti ed Europa sono di gran lunga più rilevanti di quelle con la regione.

Altre economie, come quella argentina, sono invece molto più dipendenti dagli scambi con i paesi vicini, e ciò spiega in parte l’attivismo di Buenos Aires all’interno di una cornice come quella del Mercosur.

In tal senso, ciò a cui i nuovi governi latinoamericani sono chiamati a rispondere riguarda la necessità di costruire un approccio pragmatico all’integrazione che sappia conciliare gli interessi nazionali dei singoli stati e sappia dare risposte in campo economico in un contesto globale estremamente instabile e volatile.

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