L’incontro con l’attivista palestinese, che è stato sei volte in carcere, nel suo appartamento al campo profughi di Aida a Betlemme. «Nella nostra sezione sentivamo anche le urla dei prigionieri arrivati da Gaza. Alcuni si sono suicidati, altri sono stati uccisi»
Munther Amira ci aspetta nel suo appartamento dentro al campo profughi di Aida a Betlemme, in Cisgiordania. Per raggiungerlo passiamo sotto un grande arco sovrastato da una chiave enorme. È il simbolo della “nakba” del 1948, l’anno della “catastrofe”, come la chiamano i palestinesi stessi, nel quale migliaia di loro furono costretti a lasciare le loro case.
Anche la famiglia di Munther, oggi conosciuto come uno dei più influenti attivisti pacifisti in Palestina, dovette lasciare la propria casa. Prima per stare una tenda nel campo di Aida, poi in un appartamento costruito sempre lì dentro, nel campo profughi che oggi ospita circa 8.000 palestinesi.
Tornare a casa
Una comunità che ha imparato a vivere in 0,7 chilometri quadrati, in attesa di «tornare a casa», cioè in una terra che la maggior parte delle persone nate e cresciute lì dentro non ha mai visto. Quando ci sediamo davanti a Munther Amira, 53 anni, lui fa un sospiro lungo. Scuote la testa e dice subito che qualche giorno prima del nostro arrivo i soldati israeliani sono entrati nel campo, di notte, come spesso accade, e hanno fatto irruzione nel centro per ragazzi e ragazze, dove lui si occupa di assistere i più giovani. Dietro di lui c’è una foto che lo mostra appena uscito dal carcere, ha il viso smagrito, la barba incolta. «Sono stato in carcere quattro mesi, quest’ultima è stata sicuramente la volta più brutta di tutta la mia vita».
Era passato da poco il 7 ottobre 2023 e a inizio gennaio 2024 ad Amira è stata confermata la detenzione amministrativa, ovvero la possibilità per le autorità israeliane di tenere in carcere i sospettati senza accusa o sentenza. «Sono entrato in carcere la prima volta a 16 anni, poi almeno in altre cinque occasioni». Mentre parliamo, i figli e gli amici di Munther Amira entrano ed escono di casa. Qualcuno porta un caffè, altri le sigarette. Munther dosa le parole ed entra nei dettagli.
«Durante il primo controllo in prigione mi hanno obbligato a restare nudo, poi qualcuno dei soldati ha detto che si poteva dare inizio alla festa. Così hanno iniziato a spingermi contro la parete, per poi ispezionare in mezzo alle mie gambe con il loro magnetometro. Sanno benissimo dove farlo arrivare e come. Io a quel punto ho perso i sensi e non so dire se ciò che ho subito sia un abuso sessuale».
In base ai dati dell’organizzazione non governativa israeliana B’Tselem, a luglio 2024 erano 9.623 i detenuti palestinesi presenti all’interno delle carceri israeliane. Almeno la metà non ha avuto un processo e nemmeno la possibilità di difendersi legalmente. Diversi rapporti presentati sia da B’Tselem che da Amnesty descrivono il carcere destinato ai palestinesi come un vero e proprio inferno.
A oggi, in seguito all’accordo firmato tra Israele e Hamas, dovrebbero essere rilasciati tra i 1.000 e i 2.000 prigionieri palestinesi entro le tre fasi previste dalla tregua. Il 19 gennaio, primo giorno di tregua, ne sono stati liberati 90.
«In cella non c’erano le finestre e dove nelle volte precedenti eravamo in sei, in quei mesi eravamo almeno il doppio. Dalla nostra sezione si sentivano anche i prigionieri arrivati da Gaza, alcuni di loro si sono suicidati, altri sono stati uccisi. Sento ancora la loro disperazione nelle orecchie», continua Munther.
La vera tortura, quella che gli fa ancora chiudere gli occhi mentre racconta, è quella psicologica. «Non sai quando finirà quello che stai subendo, hai gli incubi quando sei sveglio, quando ti addormenti. Ovunque c’è il lamento costante di chi piange, chi grida, chi sta morendo di dolore. Il momento più brutto è quando senti chiamare il tuo nome. Ogni volta ho pensato “è arrivata la fine”. Non pensavo che sarei uscito vivo da lì».
Spesso Munther si trova in contrasto con chi lo accusa di dire cose inutili davanti a oltre 46mila morti. «Parlare di non violenza qui è difficile», spiega Amira. «Intere generazioni sono nate e cresciute sotto il dominio della violenza. Ma questa stessa guerra, che è nata molto prima del 7 ottobre 2023, ha dimostrato che avevo ragione».
Oggi Amira continua a battersi per i diritti dei detenuti palestinesi e della popolazione. «Prima di uscire dal carcere devi firmare un documento in cui dichiari che non parlerai con i giornalisti. Non smetterò di farlo, anche se può costarmi la vita, anche se i miei stessi figli me lo chiedono, anche se significa tornare in carcere. Non posso fermarmi, altrimenti hanno vinto loro. Abbiamo il diritto di vivere, con dignità».
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