Dopo essere già stato al centro del dibattito a cavallo tra il 2019 e il 2020, i media americani hanno di nuovo cominciato a interessarsi a Hunter Biden, figlio minore del presidente Joe Biden. E non soltanto i media vicini alla destra trumpiana, che gli hanno dedicato sempre un’attenzione morbosa, non solo attaccandolo per i suoi noti problemi di dipendenza dalle droghe, ma a volte anche per cose palesemente cospirazioniste tipo la sua presunta appartenenza a lobby sataniste.

In questo caso, invece, la questione è molto più prosaica: Hunter Biden avrebbe tentato di usare il potere del padre per i suoi affari privati. E avrebbe tentato di risolvere vecchie pendenze fiscali e giudiziarie con un patteggiamento sospettosamente bonario, poi saltato grazie ai dubbi di una giudice.

In che modo avrebbe “utilizzato” il suo potente genitore? Passandogli il telefono, giusto per millantare aiuti di altissimo livello con i suoi partner in affari. I dem sostengono che il presidente, anche prima dell’elezione e quando era il vice di Barack Obama, abbia sempre rifiutato di dare seguito a questi tentativi di contatto. Il problema è che spesso Hunter faceva affari con lobbisti di altre nazioni, come Cina e Ucraina. È stato proprio il suo ruolo nella compagnia energetica Burisma, con sede a Kiev, a scatenare il primo impeachment di Donald Trump: nel 2019 l’allora inquilino della Casa Bianca aveva chiamato il neoeletto presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, per chiedergli di indagare sugli affari del figlio del suo principale avversario, in cambio di nuovi aiuti militari.

Accordo giudiziario

C’è poi la vicenda dell’accordo giudiziario, proposto lo scorso giugno, che avrebbe in un colpo solo sanato sia il debito di oltre 200mila dollari con l’Irs, l’agenzia delle entrate statunitense, sia il reato commesso comprando una pistola nel 2018, quando non avrebbe potuto visto che all’epoca era un consumatore abituale di cocaina.

La pena, comminata da un tribunale federale, avrebbe potuto teoricamente superare i dieci anni di carcere. Il patteggiamento proposto però, secondo la giudice Maryellen Noreika, sarebbe stato sospettosamente basso. Anche perché gli avrebbe concesso una sorta di immunità di cinque anni per eventuali nuovi affari con partner esteri.

Un po’ troppo per tutte le parti, ivi compreso lo stesso avvocato difensore di Hunter Biden, che si è trovato a dover far marcia indietro in tribunale lo scorso 27 luglio. A poco vale ricordare che la giudice Noreika è stata nominata nel 2018 da Donald Trump e che il figlio di Biden ha già risarcito l’Irs. La mano leggera del dipartimento di Giustizia è finita sotto esame dei repubblicani, che già accusano da tempo l’amministrazione di usare i tribunali come un «arma» contro Donald Trump.

Ora il presidente della commissione Trasparenza alla Camera dei rappresentanti, James Comer, repubblicano del Kentucky, ha chiesto al Fbi di indagare su quanto detto da una fonte anonima al bureau: sia il presidente sia il figlio avrebbero incassato 5 milioni a testa in tangenti. Un’affermazione per il momento non sostenuta da prove.

Nel nome del padre

Tornando alla questione degli affari va ricordata una testimonianza del 31 luglio: uno dei partner di Hunter Biden, l’uomo d’affari Devon Archer, ha dichiarato in audizione alla Camera che proprio l’attuale presidente avrebbe fatto sentire la sua voce in più di un’occasione.

Non è chiaro però se con frasi di circostanza oppure influenzando la riuscita dell’attività lobbistica del figlio. Pur essendo lontanissimi dalla mole di accuse che si è riversata negli ultimi mesi contro Donald Trump, nemmeno il presidente Biden è al riparo dalle accuse di corruzione e dagli attacchi repubblicani contro la sua «famiglia criminale».

Come sostenuto in un editoriale pubblicato dal Wall Street Journal, oggi Biden dovrebbe ritrattare quanto dichiarato durante un dibattito presidenziale con Trump nell’ottobre 2020, quando negò categoricamente che il figlio avesse millantato credito nei confronti di alcuni partner esteri.

Un’accusa che con tutta probabilità servirà ad annacquare quelle nei confronti dell’ex presidente e ad aggravare il senso di stanchezza degli elettori per i due probabili candidati alle presidenziali del prossimo anno. Entrambi infatti appaiono vecchi, stanchi e gravati da pendenze giudiziarie. Nulla che fornisca una valida motivazione per andare a votare.

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