È stata una corsa dell’ultimo minuto, conclusasi appena prima di mezzanotte dell’ultimo giorno in carica di Michelle Bachelet. Alla fine, il tanto atteso rapporto dell’Onu sulla situazione dei diritti umani nello Xinjiang è stato pubblicato.

L’alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani è stata stretta per anni tra due fuochi. Da una parte c’erano i gruppi per i diritti umani e la comunità accademica che la accusavano di chiudere gli occhi davanti agli abusi subiti dalle minoranze musulmane nella regione occidentale della Cina. Dall’altra la pressione di Pechino che nega che nello Xinjiang avvengano violazioni dei diritti umani, sostenendo inoltre che la lotta contro il terrorismo è un affare interno in cui la comunità internazionale non dovrebbe essere coinvolta.

Ritardi e rinvii

Lo scorso giugno l’alto commissario aveva annunciato di voler pubblicare il rapporto entro la fine del proprio mandato, in scadenza il 31 agosto. Il documento è rimasto a lungo in revisione: ancora nel settembre del 2021 Bachelet aveva detto che il testo era in via di rifinitura.

In questi continui ritardi molti ci hanno letto una pressione di Pechino e in effetti lo scorso luglio è girata la notizia che la delegazione cinese a Ginevra avrebbe fatto circolare una lettera tra le rappresentanze diplomatiche per cercare sostegno contro la pubblicazione del rapporto.

Secondo fonti giornalistiche, la Cina chiedeva a Bachelet di non procedere con la pubblicazione del rapporto perché «intensificherà la politicizzazione e lo scontro tra blocchi nel campo dei diritti umani, minerà la credibilità dell’ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani (Ohchr) e danneggerà la cooperazione tra l’Ohchr e gli stati membri».

Le accuse che da più parti sono state lanciate contro la Cina sono quelle di internamento massiccio della popolazione uigura dello Xinjiang e di altre minoranze musulmane della regione. Alcune stime calcolano che la campagna «anti-terrorista» e di «de-radicalizzazione» di Pechino abbia messo circa un milione di persone in centri di detenzione e rieducazione, dove sarebbero praticati torture, lavori forzati e violenze sessuali.

Bachelet si era recata nello Xinjiang lo scorso maggio, in quello che da molti era stato giudicato come uno show propagandistico messo in piedi dalla Repubblica popolare. La stessa commissaria dell’Onu aveva detto di non aver ottenuto accesso senza restrizioni alla regione.

Il contenuto del rapporto

Nonostante la pressione esercitata dalla Cina nel circuito delle Nazioni unite, alla fine però la pubblicazione è avvenuta. Il documento di 48 pagine contiene numerose conferme di quanto denunciato da ricercatori, attivisti e testimoni.

Pur affermando che in Xinjiang sono stati compiuti «serie violazioni dei diritti umani», il rapporto è tuttavia molto cauto su diversi punti in mancanza di dati affidabili. Ad esempio, per quanto riguarda le accuse di tortura, violenza sessuale e trattamenti medici forzati, si afferma che esse siano credibili dato l’ambiente detentivo non supervisionato e altamente discriminatorio ma che «le informazioni disponibili in questo frangente non consentono all’Ohchr di raggiungere conclusioni definitive sull’esatta entità di questi abusi».

Anche riguardo le accuse di sterilizzazioni forzate e di controllo della natalità imposto sulle donne dello Xinjiang al di fuori dei centri di detenzione, il rapporto ritiene che vi sia un fondamento pur ammettendo anche qui la difficoltà di valutare l’esatta diffusione di queste politiche.

Sul tema del lavoro forzato il rapporto usa un linguaggio leggermente più deciso, chiedendo al governo cinese maggiori chiarimenti sulla propria aderenza agli obblighi internazionali. Nonostante la necessità di maggiori informazioni riguardo l’assunzione, il collocamento e le condizioni di lavoro dei detenuti, lo stretto legame tra programmi d’impiego e le strutture rieducative pone un serio interrogativo riguardo la volontaria adesione dei detenuti a questi programmi.

«Il sistema Vetc (Vocational Education and Training Centres, i centri di rieducazione ndr) costituisce una privazione di libertà arbitraria su larga scala attraverso l’inserimento forzato in strutture residenziali e “formazione” obbligatoria. Gli individui nel sistema sono quindi sotto costante “minaccia di punizione”» dice il documento.

«Per esempio, alcuni detenuti nelle strutture Vetc hanno detto all’Ohchr di aver dovuto lavorare all’interno delle strutture Vetc come parte del proprio “processo di promozione”, senza possibilità di rifiutarsi per paura di essere tenuti più a lungo nelle strutture».

Detenzioni arbitrarie

La parte più corposa però è riservata all’internamento massiccio della popolazione e alle privazioni di liberà. In circa 15 pagine, il rapporto argomenta che «uno schema su larga scala di detenzione arbitraria ha avuto luogo nelle strutture Vetc, almeno tra 2017 e 2019, toccando una porzione significante della comunità uigura e delle altre minoranze etniche prevalentemente musulmane dello Xinjiang».

Sebbene il governo abbia dichiarato chiuse queste strutture, l’Ohchr ammette di non poter confermare questa informazione ma sottolinea che «rimangono considerevoli preoccupazioni, in particolare per via del fatto che il quadro di leggi e politiche che sostenevano l’operazione del sistema Vetc rimane in vigore».

Tirando le conclusioni il documento sottolinea che le detenzioni discriminatorie e arbitrarie avvenute in Xinjiang, nel contesto di più ampie negazioni dei diritti umani fondamentali, potrebbero costituire crimini contro l’umanità.

Perciò, tra le raccomandazioni, viene suggerito ai paesi membri dell’Onu di non rimpatriare verso la Cina i cittadini di etnie musulmane dello Xinjiang. Mentre ora iniziano a volare le accuse tra Pechino e l’occidente, il rapporto segna senza dubbio un punto di svolta (o di non ritorno) per l’Onu, per la comunità internazionale, per la Cina e per lo Xinjiang.

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