L’intensità dei bombardamenti delle ultime ore è leggermente calata, ma i raid non hanno risparmiato accampamenti e palazzine ancora in piedi dove si erano rifugiate alcune famiglie con bambini piccoli. E sono stati principalmente loro le ultime vittime del fuoco israeliano.

Sono 183, infatti, le vite di giovanissimi gazawi spazzate via nella frazione di un secondo mentre un missile colpiva una sede dell’Agenzia Unops delle Nazioni unite nel centro della Striscia. Fonti dell’ospedale Al Aqsa hanno fatto sapere che ci sono due morti e cinque feriti gravi tra il personale straniero che lavorava nel palazzo. L’Idf ha smentito di aver colpito la sede dell’Onu, mentre il segretario generale Antonio Guterres ha chiesto un’indagine indipendente sul caso e il suo portavoce ha fatto sapere che sono «280 i colleghi Onu uccisi a Gaza dal 7 ottobre 2023».

«Non è stato un incidente, è stato un episodio, ciò che sta accadendo a Gaza è inaccettabile. Gli attacchi contro le sedi umanitarie sono una violazione del diritto internazionale. Il personale delle Nazioni Unite e i suoi locali devono essere protetti da tutte le parti», ha detto il direttore esecutivo di Unops Jorge Moreira da Silva parlando ai cronisti a Bruxelles dell’attacco.

Il destino dei civili

L’esercito israeliano ha annunciato un’operazione via terra limitata per riprendere il controllo del corridoio di Netzarim e ha colpito almeno 20 target nella zona centrale e nel nord della Striscia affermando di aver distrutto alcuni siti militari di Hamas. Ma a finire nel mirino sono stati soprattutto i civili. Da martedì si conterebbero almeno 436 morti – tra cui, appunto, 183 bambini – e 678 feriti. E tra la gente di Gaza è tornata la disperazione.

«Non ci saremmo mai aspettati che la guerra sarebbe tornata, non così in fretta», dice tra le lacrime Nesma Ashraf, quarant’anni, madre di due figli, sfollata da Beit Hanoun a Khan Younis. «Siamo stati felici di tornare nella nostra casa al nord, anche se è distrutta, e abbiamo costruito una tenda sulle macerie. Ora siamo tornati all’ignoto a Khan Younis. Soffriamo già per la mancanza di cibo e acqua», racconta sempre Nesma. «Ieri non abbiamo mangiato all’Iftar (l’interruzione del digiuno durante il giorno di Ramadan, ndr), perché eravamo ancora per strada e non riuscivamo a trovare una nuova tenda. Ci sentiamo come se fossimo stati traditi dal mondo e dai mediatori. A nessuno importa di noi».

Questa mattina tra le strade della Striscia serpeggia una grande rabbia, verso la comunità internazionale, ma soprattutto verso Hamas. La credibilità dell’organizzazione terroristica, precipitata durante i 500 giorni di guerra, era ricresciuta dopo l’accordo di tregua, ma oggi sembra di nuovo in frantumi. «Per poter ottenere una pace duratura dobbiamo liberarci di Hamas», commenta Abulah Saher, che era docente di storia contemporanea all’università di Gaza City. «L’organizzazione ha fornito a Israele un pretesto per distruggere la Striscia solo per i suoi interessi. Ha distorto la nostra lotta per l’indipendenza, ci ha reso tutti terroristi agli occhi del mondo e oggi ne paghiamo le conseguenze noi civili».

Da parte sua, Hamas dichiara di non aver chiuso la porta ai negoziati. «Non c’è bisogno di nuovi accordi, dato che ce n’è uno che è già stato firmato da tutte le parti», ha annunciato Taher al-Nunu, portavoce delle milizie. «Chiediamo alla comunità internazionale di costringere l’occupazione a cessare l’aggressione».

Il ritorno di Ben Gvir

Nelle prossime ore è previsto un nuovo colloquio tra i mediatori, ma le intenzioni di Benjamin Netanyahu sono di proseguire i bombardamenti su Gaza. Lo deve al partito Potere ebraico di Itamar Ben Gvir, l’ex ministro della Sicurezza nazionale che si era dimesso all’indomani dell’accordo sul cessate il fuoco siglato il 19 gennaio. Proprio martedì, quando la tregua è stata interrotta da feroci bombardamenti sulla Striscia, il partito di estrema destra di Gvir è rientrato nella maggioranza e ha riposto la sua fiducia nelle mani del primo ministro.

Ben Gvir è stato rinominato ministro della Sicurezza nazionale insieme a Yitzhak Wasserlauf, rinominato ministro per il Negev e la Galilea, e ad Amichai Eliyahu, che è tornato a capo del ministero per il Patrimonio storico. Con questa mossa, Netanyahu spera di ricompattare il governo e soprattutto di riuscire a far approvare il bilancio entro la fine del mese. Se la manovra economica non dovesse passare, infatti, la Knesset sarebbe sciolta e si dovrebbe tornare a elezioni. Sarebbe l’incubo peggiore per il premier, che ha da affrontare anche un processo per corruzione. L’udienza in cui avrebbe dovuto testimoniare, tra l’altro, doveva tenersi martedì, ma è stata annullata a causa di «circostanze particolari». Cioè la ripresa dei bombardamenti.

In compenso, Bibi deve fare i conti con la protesta degli stessi israeliani. In migliaia, sia a Tel Aviv sia a Gerusalemme, sono scesi in strada per protestare contro la ripresa dei raid a Gaza che potrebbero mettere in pericolo la vita dei 59 ostaggi ancora nelle mani di Hamas. «Il nostro peggiore timore si è avverato: il governo israeliano ha scelto di abbandonare gli ostaggi», ha fatto sapere il portavoce di un’associazione di familiari presente in piazza a Gerusalemme. «Questa pazzia deve finire, prima che non ci sia più nessuno da salvare, prima che non ci sia più un Paese», grida Shikma Bressler, leader della protesta a Gerusalemme. La folla ha bloccato l’accesso principale alla città mentre ha provato a dirigersi verso la casa della famiglia Netanyahu. «Fermiamo questa guerra», «Non in mio nome», sono alcuni degli slogan che i manifestanti hanno urlato e scritto sui cartelli durante le marce tra le strade di Israele.

Fragili speranze

«Pace», ha, invece, scritto una giovane donna su un cartellone colorato. È seduta su un marciapiede e guarda la gente sfilare davanti a sé. A pochi chilometri di distanza c’è un’altra ragazza che è seduta sul ciglio di una strada a Khan Yunis, nel sud di Gaza. Sarah Saleh, 25 anni e madre di un bimbo nato sotto le bombe poco dopo il 7 ottobre 2023, non sa dove andare. «Non ho idea di dove cercare riparo. Finiremo in una tenda e Dio solo sa se la troveremo o no». Ieri l’Idf ha lanciato a pioggia volantini con le istruzioni per le evacuazioni nelle zone di Beit Hanoun, Khirbet Khuza’a, Abasan al-Kabira e Abasan al-Jadida e migliaia di persone hanno dovuto spostarsi ancora una volta per cercare riparo da qualche parte. Sperando in una notte senza bombe, sperando di non morire.

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