«La politica estera non ha bisogno che di una direzione regolare, sicura, pronta, per procedere convenientemente». Nel corso di un aspro dibattito alla Camera dei deputati del marzo 1889, Francesco Crispi rispondeva così a Ruggero Bonghi che gli rimproverava di non adempiere ai suoi doveri essendo contemporaneamente presidente del Consiglio, ministro dell’Interno e degli Esteri.  

Nonostante l’evidente forzatura, l’esponente della sinistra storica ben sintetizzava la diffusa rappresentazione della politica estera, intesa come combinazione tra obiettivi e strumenti scelti da un governo nelle sue relazioni con l’esterno, quale attività contraddistinta più da “costanti” che da “variabili”. Soprattutto se comparata alla politica interna, segnata da mutamenti relativamente più frequenti nelle scelte compiute dal decisore politico, anche su temi significativi per la vita di una nazione. All’interno di un perimetro democratico, tali cambi di rotta costituiscono la principale conseguenza di quell’alternanza resa ciclicamente possibile dalle elezioni. E allora cosa succederà ora che Antonio Tajani è diventato ministro degli Esteri?

Il fattore “umano”

Il risultato emerso dalle urne il 25 settembre e poi la scelta di questo ministro ha rilanciato il dibattito sulla continuità/discontinuità in politica estera, facendo paventare da qualcuno brusche virate per l’Italia sulla scena internazionale in seguito alla vittoria del centrodestra. Soprattutto dopo la diffusione 

Al verificarsi del turnover, d’altronde, numerosi osservatori, anche tra i più esperti, non di rado si dichiarano convinti di una “rottura” in arrivo, proporzionale a quella interna, nelle relazioni esterne di un paese. E, ancor di più, questo accade con la costituzione di esecutivi guidati da attori totalmente – il Movimento 5 stelle nel 2018 – o parzialmente – Fratelli d’Italia nel 2022 – “nuovi” all’arte del governo.

Come se la politica estera fosse rivolta a un ambiente in tutto e per tutto simile a quello “domestico” – relativamente ordinato, con rapporti di potere gerarchici e in cui il mancato rispetto della legge implica sanzioni – le interpretazioni e le previsioni formulate in merito ruotano di sovente intorno al fattore “umano”. Sarebbero, quindi, i programmi elettorali, i legami internazionali, l’universo valoriale e le preferenze di leader e partiti a dirci dove andrà un paese in caso di vittoria di questa o quell’altra parte politica. Se fossero effettivamente questi i fattori in grado di spiegare il comportamento esterno di un paese, cosa dovremmo aspettarci a ogni cambio di governo?  

Tra gli altri fenomeni, solo a titolo di esempio, una condotta nei rapporti con gli altri stati dettata dall’appartenenza dei governanti del momento a una certa famiglia politica, piuttosto che a un’altra. E, quindi, buoni uffici tra paesi i cui governi hanno un colore affine.

Senza indugiare su esemplari casi “esterni”, come quello dell’intesa tra gli Stati Uniti di George W. Bush e il Regno Unito di Tony Blair, è possibile smentire agevolmente tale ipotesi anche restringendo il campo d’analisi. Si pensi all’ultimo governo di centrodestra, il Berlusconi IV. Al tempo ci saremmo dovuti aspettare ottimi rapporti con la Germania di Angela Merkel, la cui Unione cristiano-democratica (Cdu) faceva parte insieme a Forza Italia del Partito popolare europeo. Parimenti, nell’ultimo decennio, dai governi di centrosinistra o a trazione centrosinistra, ci saremmo dovuti attendere un miglioramento dei rapporti con la Francia, guidata dapprima da Francois Hollande e poi da Emmanuel Macron.

La storia, tuttavia, ci parla di rapporti pessimi tra Roma e Berlino negli anni compresi tra il 2008 e il 2011, tanto che Silvio Berlusconi ha lanciato più o meno esplicitamente alla kanzlerin l’accusa di essere tra gli artefici della sua uscita di scena. In tempi più recenti, similmente, la realtà dei rapporti franco-italiani è stata segnata da ripetute tensioni – dal sostegno francese al governo illegittimo di Tobruk in Libia all’affaire dei cantieri navali di Saint-Nazare, passando per la scarsa cooperazione sul capitolo dei migranti – stemperate solo con la firma del Trattato del Quirinale grazie all’impulso di Mario Draghi, un presidente del Consiglio non espressione del centrosinistra.

Nonostante la sua scarsa capacità predittiva, tuttavia, il dibattito pubblico è spesso appiattito sul fattore umano per interpretare o prevedere le evoluzioni in politica estera. Forse perché l’idea della discontinuità, che esso implica, asseconda sia le logiche peculiari delle campagne elettorali – i cui protagonisti devono tracciare distinguo netti per convincere i cittadini a votarli, prospettare cambiamenti miracolosi in caso di vittoria e stigmatizzare l’eventuale successo altrui – sia quelle del circuito mediatico, che ha sempre “fame” di novità e si alimenta meglio in presenza di antagonismi assoluti. La ricerca dell’origine “domestica” della politica estera, tuttavia, fa spesso cadere nell’errore di sottovalutare una serie di fattori che remano nella direzione della continuità.

Con ciò non si vuole sostenere che essa sia impermeabile all’alternanza al potere. Questa determina sempre aggiustamenti minori e molto di frequente la modifica degli strumenti considerati più efficienti per il perseguimento degli interessi di un paese sui singoli dossier. Un fenomeno più raro da osservare, invece, è il mutamento dei suoi obiettivi strategici e, ancora di più, quello della sua postura – conservatrice o revisionista – rispetto all’ordine regionale o internazionale cui prende parte.

Tendenza alla continuità

La tendenza alla continuità, dal canto suo, può essere spiegata attraverso fattori strutturali, sia interni che esterni. Tra i primi, le logiche di potere a cui è chiamato ad adeguarsi chi entra nelle stanze dei bottoni, pena l’uscita immediata.

I vincitori delle elezioni assumono non solo una responsabilità diversa – governare, anziché controllare chi governa – ma anche un obiettivo diverso – mantenere il potere, anziché conquistarlo. Tale passaggio, unito a una visione d’insieme di cui erano precedentemente privi, li induce a una progressiva “istituzionalizzazione” anche laddove siano partiti da posizioni radicali. Si pensi alla parabola di Luigi Di Maio che, nel corso dell’ultima legislatura, ha dapprima incontrato quei gilets jaunes protagonisti di una feroce contestazione a Macron (2019), per poi collaborare con quest’ultimo alla firma del Trattato del Quirinale (2021) in qualità di ministro degli Affari esteri.

Altro fattore interno da cui viene fatta dipendere la continuità in materia di esteri è l’eredità politico culturale. Questa si tramanderebbe all’interno di una burocrazia professionale – la diplomazia – che, consapevole del proprio ruolo, talvolta rallenterebbe, talaltra modificherebbe le scelte contrarie alla “tradizione” nazionale. Tanto che, scriveva Carlo Maria Santoro, l’interazione di un paese con il mondo esterno sembrerebbe realizzarsi attraverso un meccanismo di ripetizione delle azioni e delle reazioni.

È a questa resistenza al cambiamento da parte della burocrazia che Barack Obama ha riservato critiche sprezzanti, etichettandola derisoriamente the blob, poiché ostacolava il disimpegno americano dal medio oriente. Battaglia poi ripresa dal suo successore Donald Trump che ha denunciato l’opposizione del deep state a quei cambiamenti considerati imprescindibili per la preservazione del primato internazionale degli Stati Uniti.

La formulazione della politica estera, infine, si può ricondurre alle condizioni strutturali che contraddistinguono l’ambiente internazionale – ovvero alle istituzioni internazionali vigenti, alla distribuzione asimmetrica del potere tra gli stati e alle loro capacità relative – da cui derivano incessantemente rischi e opportunità. Facendo ricorso a tale lente interpretativa è lecito aspettarsi che il mutamento, soprattutto se di intensità “maggiore”, avvenga solo in presenza di altrettanto significative variazioni strutturali, rispetto a cui una classe politica deve saper dimostrare spirito di adattamento.

«Se è tempi e le cose si mutano», scriveva Niccolò Machiavelli ne Il principe, «[chi] non muta modo di procedere […] rovina». Si pensi al caso dei Verdi in Germania, un partito che ha sempre avversato il rafforzamento dei legami con Mosca messo silenziosamente in atto nell’ultimo quindicennio ma che non si è fatto troppi scrupoli a formare un governo con quel partito socialdemocratico che con Gerard Schroeder aveva avviato questo percorso di avvicinamento per poi continuare a sostenerlo all’interno delle Große Koalition guidate da Merkel. Cosa ha permesso ai Verdi di tradurre in realtà il distanziamento da Mosca? Non la nomina di Annalena Baerbock agli Esteri dopo il successo elettorale del 2021. Piuttosto, un evento esterno come lo scoppio della guerra in Ucraina, combinatosi con il rinnovato pressing della Casa Bianca sulla spinosa questione del Nord Stream.

Un solco (in parte) segnato

Alla luce di ciò, è verosimile che il nuovo governo italiano di centrodestra non farà registrare scossoni nella dimensione internazionale, nonostante certe relazioni o preferenze “pericolose” di alcuni suoi esponenti. Ma che, si ricordi, non difettano neanche al centrosinistra.

Giorgia Meloni, d’altronde, si era già portata avanti con l’istituzionalizzazione di Fratelli d’Italia in materia di esteri. Tanto che le sue posizioni sull’aggressione russa all’Ucraina o sulle insidie provenienti dalla Cina le hanno già fatto incassare l’endorsement di Washington, arrivato via tweet del segretario di Stato Antony Blinken. Così come ha riformulato il suo registro – seppur critico – verso Bruxelles, depurandolo da ogni retorica no-euro o da scenari à la Italexit. Non a caso, a difendere la presidente del Consiglio allora ancora in pectore dalle invettive del ministro francese Laurence Boone è intervenuto niente meno che il presidente Sergio Mattarella.

Parallelamente, la nuova guida del dicastero degli Esteri – Antonio Tajani – e della Difesa – Guido Crosetto – sono coerenti con l’obiettivo della continuità in politica estera, trattandosi di figure con rapporti istituzionali consolidati o provenienti direttamente dalla diplomazia.

La congiuntura internazionale, da ultimo, restringe il campo d’azione di palazzo Chigi, ancorandolo per ragioni di necessità a quel trinomio “atlantismo, europeismo e Mediterraneo allargato” ricordato da Draghi nel suo discorso di insediamento.

Di fronte alla polarizzazione internazionale, le ridotte risorse a disposizione di una media potenza come l’Italia le impongono di serrare i ranghi al fianco del suo alleato maggiore, gli Stati Uniti, senza indugiare in avventurismi come già avvenuto negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Chiunque guidi il paese in questa fase non ha altra scelta a disposizione che una stretta osservanza dell’atlantismo, pena una dolorosa e incerta ridefinizione dei mezzi a servizio della sicurezza nazionale. Pertanto, le aperture a Russia e Cina rese possibili in passato da un contesto politico-strategico almeno apparentemente più stabile sono oggigiorno fuori dall’agenda del prossimo governo.

La gravità della crisi energetica in corso, inoltre, ha imposto a Meloni una condotta “euro-realista” nei confronti di Bruxelles. La leader di FdI, infatti, lungi dal richiedere “meno Europa” per uscire dall’impasse, come alcuni avrebbero potuto legittimamente sospettare tempo addietro, ha reclamato una risposta collettiva da prendere in sede europea che vada nella direzione opposta a quella tracciata dalla Germania, dal sapore paradossalmente sovranista. E se c’è da aspettarsi che Meloni lavorerà al progetto di un’Unione europea a trazione meno teutonica – quella che retoricamente chiama “Europa delle patrie” – occorre ricordare che tale ambizione è osservata con interesse sull’altra sponda dell’Atlantico.

Washington, infatti, ha sempre visto di cattivo occhio il primato tedesco sul continente e i suoi rapporti con Berlino non sono affatto migliorati con l’arrivo alla presidenza di Joe Biden. Senza dimenticare che un certo “contenimento” della Germania è stata la cifra distintiva della carriera di Draghi, sin dai tempi del whatever it takes fino alle ultime critiche nei confronti di Ursula von der Leyen al vertice di Praga, così come l’ambizione covata da Matteo Renzi nella sua fugace stagione a palazzo Chigi.

Sempre coerentemente con il suo predecessore e con il riorientamento strategico americano verso l’Indo Pacifico, è verosimile che l’esecutivo Meloni continuerà, non ci è dato di sapere con quali risultati, nella difficile opera di rilancio del ruolo italiano nel Mediterraneo, che ha trovato eco nell’ipotesi dell’istituzione di un “ministero del mare” e risulta profondamente collegato con gli intricati nodi dei flussi migratori e dell’instabilità della Libia. Con i quali, almeno sulla carta, il prossimo presidente del Consiglio sembra volersi cimentare.

La strategia migliore

Durante la Guerra fredda ai piloti di combattimento americani che si fossero trovati nel raggio d’azione di un caccia sovietico veniva dato un suggerimento: mantenere altitudine, rotta e velocità costanti. Questo modello di comportamento serviva a limitare l’incidenza del fattore ignoto – le capacità e le intenzioni altrui – su scelte dalle conseguenze imprevedibili – portare a casa la pelle a costo di innescare di una guerra atomica. 

Mutatis mutandis, di fronte a processi politici globali su cui nessun governo italiano può realmente incidere, ma su cui potrebbe facilmente scottarsi, la strategia migliore per il centrodestra è restare ben piantato nel solco delle coordinate classiche della politica estera italiana, seppur con gli aggiustamenti del caso. Meloni, al momento, sembra averlo capito, ma, come noto, del doman non v’è certezza.

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