Il Libano che emerge dallo tsunami mediorientale sembra oggi affacciato sulla soglia di una profonda trasformazione tanto da indurre alcuni osservatori a immaginare l’avvento di una vera e propria rivoluzione del sistema di governo: non più basato sulla lottizzazione clientelare e consociativista bensì sulla partecipazione di tutti i cittadini – non sudditi e membri comunitari – alla costruzione di istituzioni statali trasparenti e al servizio dello sviluppo del paese.

Il discorso inaugurale del presidente della Repubblica, il generale maronita Joseph Aoun, già capo dell’esercito, e il successivo discorso del premier incaricato, il sunnita Nawaf Salam, già presidente della Corte Internazionale di Giustizia (Cig), hanno disegnato orizzonti in linea con questa annunciata rivoluzione politica.

La loro ascesa a due delle tre massime cariche dello stato – l’altra, la presidenza del parlamento, è occupata dall’inamovibile ma anziano leader sciita Nabih Berri – è avvenuta nell’arco di pochi giorni dopo più di due anni di vuoto istituzionale.

Una svolta resa possibile dalle pressioni, definite “senza precedenti” dallo stesso Berri, esercitate dalle cancellerie occidentali e dei paesi arabi del Golfo anti-iraniani. Una dinamica innescatasi alla luce del ridimensionamento dell’influenza iraniana in tutto il Medio Oriente dovuto alla sconfitta politico-militare di Hezbollah in Libano e alla dissoluzione nella vicina Siria del potere incarnato dalla famiglia Assad.

La possibilità di una riforma

Al netto dei fattori esterni, l’elezione di Aoun e la nomina di Salam hanno riacceso le spinte riformiste locali che si erano espresse in tutta la loro forza durante le ricorrenti stagioni di proteste sin dal 2015, culminate poi con la sollevazione (thawra) di massa del 2019: al grido di “tutti, davvero tutti!” si era allora scesi in strada chiedendo di voltare radicalmente pagina con la gestione decennale del potere da parte dei leader politico-confessionali riuniti nella “cupola” consociativista.

Sebbene il capo di Stato Aoun e il premier incaricato Salam siano ora al vertice del potere secondo le ben oleate regole del sistema confessionalista tanto contestato nel 2019, i loro complementari manifesti di governo puntano a trasformare profonda la governance del Libano, andando di fatto incontro alle richieste riformatrici presentate più di cinque anni fa.

La dinamica in atto non può esser dunque rappresentata solo come il frutto di una imposizione esterna, determinata anche dall’occupazione militare israeliana di parte del sud del Libano a scapito della resistenza armata di Hezbollah.

In questo contesto il fattore personale – le rispettive capacità e reti di contatti di Aoun e Salam – potrebbe invece rivelarsi decisivo nel plasmare le prossime scelte politiche. Da una parte, le potenze occidentali e arabe alleate di Israele faranno di tutto per condizionare il loro annunciato sostegno finanziario e politico al “nuovo Libano” in cambio del mantenimento dello statu quo interno; senza di fatto alterare il collaudato rapporto clientelare tra forze esterne e leader politico-confessionali che siedono nella “cupola”.

Dall’altra, i due nuovi interpreti istituzionali potrebbero cercare di innescare un genuino e graduale processo di trasformazione politica che miri, nel medio e lungo termine, a sostituire la “cupola” stessa, e tutto quello che, a cascata, ne deriva in termini di ripartizione verticale delle quote di potere, con organi istituzionali basati sulla meritocrazia, l’accountability, l’egualitarismo.

La riforma finanziaria

Difficile immaginare che questo orizzonte possa concretizzarsi nel Libano di oggi. Ma è oggi che Aoun e Salam sono chiamati a un esame cruciale: tradurre in fatti concreti i loro rispettivi discorsi inaugurali, per promuovere un’agenda per il cambiamento.

Due sono i banchi di prova per i prossimi mesi: la tanto attesa riforma del sistema finanziario, necessaria tra l’altro per sbloccare gli aiuti promessi dal Fondo monetario internazionale. E il rapporto con Hezbollah e la sua mutata dimensione politico-militare.

La riforma finanziaria è stata a lungo bloccata, di fatto, dalla ‘cupola’ grazie al ruolo decisivo dei precedenti interpreti istituzionali apicali: l’ex capo di Stato Michel Aoun (non legato da nessuna parentela con l’attuale presidente Joseph Aoun), l’ex governatore della Banca centrale Riad Salame, l’ex premier Najib Mikati. Con Aoun, Salame e Mikati ora esclusi dalla scena, si presenta un'opportunità per spingere verso riforme significative.

A tal proposito ci si chiede chi sarà il prossimo ministro delle finanze del governo guidato da Nawaf Salam. Questo dicastero è considerato da anni un feudo dell’alleanza sciita Amal-Hezbollah. Circola l'ipotesi che l'attuale governatore ad interim della Banca centrale, lo sciita Wassim Mansuri, possa assumere l’incarico ministeriale, soddisfacendo almeno in parte le richieste del fronte politico sciita di mantenere una posizione strategica nell’esecutivo. Al di là delle appartenenze confessionali, in linea con la consueta lottizzazione delle cariche istituzionali, bisognerà capire se si assisterà a genuine riforme o se il sistema continuerà a opporre resistenze al cambiamento.

Il ruolo di Hezbollah

L’altro banco di prova riguarda il ruolo di Hezbollah nel nuovo panorama libanese. Il Partito di Dio ha perso nell’arco di tre mesi due dei suoi tre pilastri strategici: l’influenza iraniana nella regione e il controllo del corridoio siro-libanese. A questo si aggiunge l’uccisione il 27 settembre da parte di Israele del suo leader storico, Hasan Nasrallah, a lungo esponente chiave nella “cupola” e garante massimo degli interessi della comunità popolare di Hezbollah, in larga parte rappresentativa della comunità sciita libanese.

Questa base di sostegno popolare, grosso modo ancora intatta e radicata nel territorio, costituisce il terzo pilastro strategico del movimento armato libanese. E rappresenta l’unica vera risorsa negoziale nelle mani del Partito di Dio. Sebbene Hezbollah conservi le sue armi, non può più minacciare di usarle contro altri libanesi – come avvenuto, per esempio, nel 2008 – perché non dispone più del sostegno forte dell’Iran e non ha più le spalle coperte nella vicina Siria.

Il presidente Aoun ha detto chiaramente che intende ripristinare il monopolio statale delle armi, affermando in pratica che intende avviare quanto previsto dall’accordo per il cessate il fuoco del 27 novembre: ritiro di Hezbollah dal sud, in concomitanza con il dispiegamento dell’esercito a nord della Linea Blu, e disarmo del Partito di Dio, come previsto dalla risoluzione Onu 1701 del 2006 che, a sua volta, evoca la risoluzione 1559 del 2004.

Su questo Aoun sembra agire su indicazione dei suoi sponsor occidentali filo-israeliani. Eppure, la nomina di Salam a premier incaricato ha aperto un segnale di moderazione. Oltre ad aver esplicitamente condannato, in qualità di presidente della Cig, Israele per crimini contro l’umanità e atti di terrorismo, Nawaf ha ribadito la sua intenzione di opporsi alle aggressioni israeliane.

Questo non sembra però sufficiente per negoziare con Hezbollah e con la sua comunità popolare un nuovo patto di governo, che sia basato sulla rappresentanza istituzionale di tutte le componenti del paese e che, al tempo stesso, preveda lo smantellamento della struttura militare del Partito di Dio. L’unica via percorribile, anch’essa proiettata nel lungo termine, è l’elaborazione da parte dello stato di una strategia di difesa nazionale che includa lo spirito di resistere a Israele, senza sottomettersi né alle pressioni occidentali né a quelle iraniane. 

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