Nell’iperpolarizzazione della politica americana è difficile trovare concordia su un qualsiasi argomento, soprattutto se di politica estera. Non c’è l’unanimità nel sostegno militare allo stato d’Israele (criticato dalla Squad, il gruppo di deputati dem guidato da Alexandria Ocasio-Cortez) né tantomeno in quello nei confronti dell’Ucraina (osteggiato dai repubblicani di rito trumpiano).

C’è però una sostanziale concordia sul fatto che l’accordo del 2015 tra Stati Uniti e Iran, firmato anche grazie alla mediazione europea e russa, sullo stop al nucleare sia stato un tragico errore che ha consentito al regime degli Ayatollah di tornare in possesso di circa 6 miliardi di asset finanziari congelati nel territorio ai tempi della rivoluzione di Khomeini nel 1979. Anche uno dei suoi primi sostenitori, l’ex segretario al Tesoro Jack Lew, ha dichiarato che l’Iran è una «forza maligna» nello scacchiere internazionale.

Chi invece ha pochi dubbi su quello è Ben Rhodes, classe 1977, oggi influente commentatore progressista e autore di podcast, che per gli otto anni di presidenza obamiana ha occupato l’oscura posizione di vice consigliere per la sicurezza nazionale con delega alla comunicazione strategica. In teoria è una delle tante cariche dell’elefantiaco staff presidenziale, ma nel caso di Rhodes così non è stato, anzi, ha avuto un enorme influenza sia sulla politica effettiva dell’amministrazione Obama sia sui messaggi “giusti” da far arrivare alla stampa. Rhodes entra giovanissimo alla Casa Bianca, all’età di soli 31 anni.

Prima di questo è stato innanzitutto l’autore dei discorsi di Lee Hamilton, ex deputato dem e direttore del Wilson Center di Washington, con in tasca solo una laurea magistrale in scrittura creativa. Zero esperienza militare e diplomatica, ma anche un background accademico molto limitato che però non gli ha impedito di diventare prima uno dei principali autori dei discorsi di di Barack Obama già durante la campagna elettorale presidenziale del 2008. All’epoca uno dei temi della campagna era un reset generale delle relazioni diplomatiche degli Stati Uniti, a parere di Obama gravemente rovinate dalle politiche unilateraliste di George W. Bush. Ed ecco che il primo importante incarico per Rhodes arriva: il 4 giugno 2009 è suo il discorso che il presidente pronuncia all’università al Azhar del Cairo con il titolo profetico di Un nuovo inizio. Nella prolusione pronunciata dall’inquilino della Casa Bianca, si caldeggiava la necessità di ricostruire i ponti bruciati dal neoconservatorismo.

Per cercare appunto di resettare le relazioni dell’America con il mondo musulmano dopo che queste erano state gravemente danneggiate da Bush. E in effetti ci fu proprio il nuovo inizio non solo per quanto riguarda l’Iran, ma anche le primavere arabe. Fu proprio Rhodes a consigliare di abbandonare il sostegno al regime di Hosni Mubarak in Egitto nel corso delle rivolte di piazza del 2011, lo stesso leader che il presidente americano aveva incontrato cordialmente qualche ora prima del discorso di apertura. Lo stesso fece anche per l’opposizione siriana al governo dittatoriale di Bashar el Assad, tanto da guadagnarsi un ritratto entusiastico nel 2013 di colui che «a soli 35 anni» stava influenzando positivamente la politica estera statunitense. Rhodes è stato anche uno dei promotori dell’apertura di relazioni diplomatiche con Cuba, tagliate dal 1961. Ma quello che ritiene il suo maggior risultato è indubbiamente l’accordo sulla limitazione del nucleare iraniano.

Accordo che però aveva numerosi difetti, tra cui il fatto che era a tempo. All’epoca, idealisticamente, si pensava che nel 2025 ci sarebbe stato una nuova presidenza dem con la quale l’Iran pacificato e riformato avrebbe trovato un accordo con facilità. Non è avvenuto nulla di tutto questo e non si capisce come ciò si sarebbe dovuto tenere con il sostegno fornito già dall’amministrazione Obama all’invasione saudita dello Yemen poi proseguita da Trump. La risposta di Rhodes in un articolo del 2018 pubblicato su The Atlantic, è che non ci si aspettava un presidente come Trump. Non si capisce come una figura con una così scarsa conoscenza delle relazioni internazionali sia ascesa così in alto, si chiedeva nel 2016 un veterano del giornalismo specializzato in questioni di sicurezza nazionale come Thomas E.

Ricks, editorialista di Foreign Policy. A suo avviso, Rhodes era un mix insolito di “cinismo e ignoranza”, molto bravo però a forgiare narrazioni favorevoli all’amministrazione, come argomentato anche in un lunghissimo articolo pubblicato sempre nel 2016 sul New York Times a firma di David Samuels, che definì Rhodes quale «aspirante romanziere» divenuto «il guru della politica estera obamiana», anche grazie al suo saper ammannire come fatti assodati alcuni punti incerti dell’accordo sul nucleare iraniano, sfruttando anche quella che lui sapeva essere «l’ignoranza dei reporter». Se Rhodes è rimasto un autorevole commentatore per varie riviste (e Obama lo ha citato su Medium in un suo recente intervento sul conflitto), le sue politiche però appaiono ormai accantonate dall’amministrazione. A Washington non è più tempo di narrazioni ireniche, ma di un pragmatismo figlio dell’esperienza. Proprio tutto ciò che Rhodes non era.
 

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