L’economista premio Nobel Paul Krugman ha liquidato via Twitter l’argomento con poche parole: «Una scelta bizzarra». Il giudizio di Larry Summers è stato ancora più drastico. «Inept», ha scritto sui social, l’ex segretario al Tesoro di Bill Clinton, già rettore dell’università di Harvard. E col passare delle ore un esercito di accademici, politici e manager hanno sepolto la notizia sotto una coltre di incredulità e sarcasmo.

È successo che nel tardo pomeriggio di martedì, notte in Italia, l’agenzia di rating Fitch, una delle tre sigle di riferimento per i mercati finanziari mondiali (le altre sono Standard & Poor’s e Moody’s), ha declassato il giudizio sul debito degli Stati Uniti da AAA a AA+, un gradino sotto il massimo.

Possibile che il paese dal Pil più grande del mondo, il paese del dollaro, che è la valuta di riserva di tutte le banche centrali, perda di colpo la garanzia massima sull’affidabilità dei suoi titoli di stato? Durante la presidenza Biden il rischio sovrano Usa è davvero cresciuto a tal punto da meritare questa bocciatura? «Assolutamente no», è stata la scontata risposta di Janet Yellen, segretaria al Tesoro Usa, che ha definito il giudizio dell’agenzia di rating «obsoleto, basato su informazioni datate».

Ecco, a ben guardare, il problema sembra proprio questo: dalla relazione a supporto del declassamento non emerge nulla di nuovo rispetto a quanto già non fosse di pubblico dominio, numeri e dati che gli investitori internazionali avevano appreso e digerito da gran tempo.

L’agenzia di rating cita per esempio il prolungato stallo nel dibattito parlamentare a Washington sul tetto al debito pubblico, che segnala la crescente difficoltà nella gestione della finanza pubblica. Lo stallo però si è risolto ormai due mesi fa ed è una situazione che si è ripetuta più e più volte nel recente passato. Tutto questo mentre l’economia Usa macina record, con il Pil che nel secondo trimestre dell’anno ha fatto segnare un aumento del 2,4 per cento.

Il debito pubblico

Quanto alle previsioni sul debito pubblico, anche queste sono in linea con il consensus generale e a leggerle fuori contesto possono anche alimentare una certa preoccupazione. Il deficit federale americano previsto per il 2023 ammonta a 1.500 miliardi di dollari (160 miliardi in più del 2022), pari al 6 per cento del Pil. L’Italia, per dire, dopo il forte aumento della spesa pubblica legato ai sussidi del periodo pandemico, è arrivata all’8 per cento e nei piani del governo dovrebbe scendere intorno al 4,5 per cento entro fine anno. Secondo Fitch, il rapporto deficit-Pil degli Stati Uniti è invece destinato a raggiungere quota 6,3 per cento nel 2023.

Alla luce di questi dati il declassamento potrebbe quindi sembrare giustificato. A maggior ragione se si pensa che l’Italia, con il suo deficit che punta al 4,5 per cento, nel maggio scorso si è vista confermare un rating di BBB, solo due gradini al di sopra del livello junk, quello dei titoli cosiddetti spazzatura.

Nel caso degli Stati Uniti, però, la logica secondo cui si muovono i mercati finanziari è del tutto diversa. Come molti analisti hanno ricordato in queste ore, gli investitori comprano titoli di stato targati Usa perché il dollaro è la valuta di riferimento dell’economia mondiale e quindi, si presume, al riparo da ipotetici default. Proprio per questo, storicamente, gli Stati Uniti sono sempre riusciti a finanziare il loro enorme debito pubblico senza grandi problemi.

Non per niente, già nel 2011 Standard & Poor’s aveva declassato il rating americano, senza conseguenze di rilievo sui mercati. Anche in questo caso le quotazioni dei bond statunitensi non hanno fatto segnare movimenti di rilievo. Più nervosa la reazione dei listini azionari, che ieri hanno archiviato la seconda seduta consecutiva in ribasso. Le Borse però venivano da mesi di guadagni consistenti e molti investitori hanno approfittato dell’occasione per monetizzare il rialzo. Tutto qui, l’effetto Fitch.

© Riproduzione riservata