L’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 sembrava essere diventato l’ennesima commemorazione che divide l’America su linee partitiche. Da una parte i democratici, guidati dal presidente Joe Biden, a ricordare «il più grande attacco nei confronti della democrazia americana sin dai tempi di Pearl Harbor».

Dall’altra i repubblicani, che nel migliore dei casi fanno finta di nulla. Ma Biden ha spiazzato gli osservatori con un tono insolitamente combattivo e diretto. Il presidente ha dismesso i panni del pacificatore e del risanatore per indossare quelli del risoluto difensore della democrazia. Rimarrà «nella breccia del Campidoglio a respingere gli assalitori», ha detto.

Ha attaccato con inedito furore «il primo presidente in carica ad aver tentato attivamente di ribaltare il risultato delle elezioni», quello che ha intessuto una «rete di bugie» e ha un «pugnale sulla gola della democrazia». Non lo ha mai nominato, ma per sedici volte lo ha chiamato “ex presidente”.

Ne ha anche per i suoi seguaci, colpevoli di «voler riscrivere la storia». Non li nomina mai come repubblicani. Pur attaccando, non vuole apparire solo come il leader del Partito democratico, ma quello che sa distinguere tra quella che, nei fatti, viene definita come un’aberrazione, lontana dal partito repubblicano di Lincoln, di Eisenhower, di Reagan e dei Bush.

Nel discorso ha rappresentato Trump come un’anomalia da allontanare il più possibile. Se si vuole risanare, ha detto, «bisogna capire quanto è profonda la ferita»: una chiamata a risvegliarsi per un partito che non sta fronteggiando con la necessaria energia l’avanzata dei repubblicani.

Golpe al rallentatore

Non è tuttavia facile per Biden entusiasmare la base democratica e cercare di salvare la parte detrumpizzata del partito di opposizione. Il tono non è quello di una minaccia scampata e archiviata, ma di un problema ben presente e incombente, che si può presentare nuovamente, sotto forma di golpe al rallentatore, con un partito repubblicano che a livello locale cerca di mettere sotto controllo i processi elettorali.

Questo trascende persino la figura sempre più ingombrante di Trump, dato che persino Brian Kemp, l’odiato governatore della Georgia che si è rifiutato di aiutare l’allora presidente nel suo sforzo eversivo, è stato uno dei primi ad approvare una legge che rende più difficile votare per le minoranze e i meno abbienti.

E del resto c’è un quasi totale silenzio da parte degli eletti del partito, che rimane ancora una  proprietà intellettuale di Trump: smuove ben poco l’editoriale pugnace di Karl Rove sul Wall Street Journal dove afferma che pur essendo da sempre un membro del Partito repubblicano «non ci può essere assoluzione per chi ha organizzato e sostenuto l’insurrezione del 6 gennaio».

Solo la deputata Liz Cheney afferma «che bisogna scegliere tra la lealtà a Trump e alla Costituzione», mentre il senatore Mitt Romney, con uno scarno comunicato, invita ad imparare la lezione dell’anno scorso. Non destano sorpresa: da tempo sono nel mirino dei trumpisti come se fossero di estrema sinistra.

La reazione

All’estremo opposto, i due deputati ultratrumpiani Matt Gaetz e Marjorie Taylor Greene hanno tenuto una conferenza stampa nella Cannon House del Congresso a sostegno dei “patrioti” incarcerati ingiustamente, mentre il gruppo estremista Look Ahead America ha fatto una veglia di fronte alla prigione della capitale, dove sono detenuti quaranta manifestanti violenti dello scorso anno.

Uno scenario che ha ben pochi precedenti. Bisogna andare indietro di 150 anni, agli anni della Guerra civile, a cui Biden fa riferimento due volte, per citare l’arrivo delle bandiere confederate sulle spalle dei manifestanti e per usare  la battaglia decisiva di Gettysburg del 1863 come momento in cui la democrazia americana è stata difesa.

Questa violenza verbale ricorda da molto vicino gli anni precedenti al conflitto. Mentre allora le divisioni avevano dei confini territoriali precisi, adesso è sempre più sottile e difficile da descrivere.

È significativo che questo appello appassionato da parte del presidente sia stato pronunciato proprio in un luogo simbolo di questa frattura, il National Statuary Hall del Campidoglio, dove ancora oggi, dopo tutte le rimozioni, rimangono i monumenti del generale sudista Wade Hampton e del vicepresidente confederato Alexander Stephens.

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