«Qual è l’interesse nazionale vitale?», ha domandato retoricamente Joe Biden durante il discorso che ha sancito il ritiro delle truppe agli avvocati dell’estensione della presenza militare in Afghanistan. Risposta: «Assicurarci che l’Afghanistan non venga più usato per lanciare attacchi al nostro paese».

Non si tratta di un obiettivo minimalista. Biden non ha detto che lo scopo finale è soltanto prevenire attacchi da parte di network terroristici che notoriamente si rigenerano e si riadattano alle circostanze ogni volta che vengono colpiti, ma impedire che un paese ora non più occupato militarmente e in mano ai Talebani si trasformi ancora in una base da cui lanciare offensive oblique. 

Questo obiettivo, ha ripetuto il presidente per l’ennesima volta, non si raggiunge con il nation-building. Già, ma come si raggiunge? Adattando la strategia alle modalità fluide e transnazionali con cui il terrorismo si propaga: «Continueremo a lottare contro il terrorismo in Afghanistan e in altri paesi. Semplicemente non abbiamo bisogno di una guerra sul campo per farlo», ha detto, ripetendo che gli attacchi contro gli americani susciteranno ancora reazioni militari e che l’America «non ha ancora finito» con Isis-K, la branca dello Stato islamico responsabile degli attacchi a Kabul durante gli ultimi, caotici giorni dell’evacuazione. 

La guerra “umana”

In sintesi, chiudendo la guerra in Afghanistan, Biden ha rilanciato la guerra al terrore nella sua versione tardo-bushiana, obamiana e trumpiana, un conflitto più silenzioso, diffuso e clandestino di un’occupazione militare, fatto di attacchi con i droni e operazioni delle forze speciali. Nel decennio fra il 2010 e il 2020 gli Stati Uniti hanno lanciato almeno 14mila attacchi con i droni in vari paesi fra cui Pakistan, Somalia, Yemen e Libia. Sono quasi quattro bombardamenti al giorno.

Le stime più attendibili, che con tutta probabilità sbagliano per difetto, dicono che queste operazioni hanno ucciso fra 8mila e 16mila miliziani e fra 900 e 2.200 civili. Le forze speciali americane sono state impegnate direttamente in 138 paesi. 

Nel contesto del rilancio di Biden della guerra al terrorismo in altre forme, ormai assai note e praticate, casca incredibilmente a proposito l’uscita negli Stati Uniti del libro Humane: How the United States Abandoned Peace and Reinvented War di Samuel Moyn, storico e giurista di Yale che si è occupato a lungo di diritti umani.

Moyn è un intellettuale dell’area della sinistra neosocialista e da qualche anno studia il processo di “umanizzazione” della guerra che gli Stati Uniti hanno contribuito a guidare, immaginando di potere, limitando violenza e brutalità delle azioni belliche, arrivare a diminuire il ricorso alla forza militare.

La tesi di Moyn è che l’intento in apparenza nobile di rendere la guerra più “umana”, in linea con le norme internazionali ispirate ai diritti umani che regolano i conflitti, dalla Convenzione di Ginevra in giù, ha avuto il tremendo effetto collaterale di renderla invisibile, e perciò accettabile, ma soprattutto di renderla perpetua.

La guerra “umana” con i droni, che ha il vantaggio della precisione, del basso rischio per i governi che li guidano e della possibilità di negarne pubblicamente l’uso, ha dunque lo svantaggio di non offrire incentivi a diminuire il ricorso alla forza militare.

Il filosofo Michael Walzer aveva già messo a fuoco l’idea dell’«azzardo morale» dei droni, mutuando il concetto dall’economia. Un’azienda è portata a comportarsi in modo spregiudicato e irresponsabile se sa che, in caso le cose vadano male, lo stato interverrà per salvarla; così un governo è portato a condurre in modo spregiudicato azioni militari che non mettono in pericolo le vite dei propri soldati e per la loro natura informale non avranno un impatto significativo sull’opinione pubblica.

I vertici militari devono ponderare con attenzione i rischi di un’incursione delle forze speciali in un territorio ostile per dare la caccia a un terrorista. Devono considerare i rischi per i soldati coinvolti e avere un grado di ragionevole certezza che le informazioni dell’intelligence su cui si basa l’azione siano attendibili e la missione possa andare a buon fine.

Molto diverso è il calcolo quando si tratta di impiegare velivoli senza pilota teleguidati da una base americana e tutta l’operazione è protetta dai vincoli di segretezza della Cia. Anche un tenue sospetto che in un certo luogo si annidi una cellula terroristica può essere sufficiente per ordinare uno strike che in circostanze convenzionali avrebbe richiesto un vaglio molto più rigoroso.

Da Tolstoj ai droni

Moyn osserva così che più i conflitti sono regolati da convenzioni per renderli compatibili con i principi umanitari, dal trattamento dei prigionieri all’abolizione della tortura e al bando di armi particolarmente letali per la popolazione civile, come le armi chimiche, più si dilatano nel tempo e nello spazio.

Il principio l’autore lo trova nelle parole di un personaggio di Guerra e pace di Lev Tolstoj, che in modo controintuitivo suggerisce che il modo migliore per limitare il ricorso alla guerra è lasciare che sia combattuta nel modo più brutale e violento possibile, senza argini umanitari che la rendano accettabile o giustificabile.

Per Moyn gli Stati Uniti hanno invece applicato nella pratica l’idea opposta, nascondendo la dimensione barbarica sotto una coltre operativa e normativa che nel migliore dei casi le fa apparire accettabili, nel peggiore non le fa apparire affatto. 

La guerra al terrore iniziata dopo l’11 settembre è stata sempre formalmente ispirata al rispetto di principi umanitari che poi sono stati in vari casi disattesi – da Guantanamo ad Abu Grahib passando per gli interrogatori “duri” poi riconosciuti come tortura – ma sempre all’interno di una logica di violazione di regole formalmente riconosciute. 

La guerra con i droni che negli anni dell’amministrazione Obama-Biden ha assunto una forma sistematica ha rappresentato un salto di qualità. Strumenti tecnologici precisi e poco visibili, usati senza distinzioni sia in teatri di guerra che nei territori di paesi alleati, hanno amplificato una guerra ad alta quota, smaterializzata e senza confini, mentre il presidente lavorava per mettere fine ai conflitti combattuti sul campo con massiccio dispiegamento di truppe.

Donald Trump ha accelerato la dinamica in atto e Biden ha raccolto l’eredità di una guerra a cui si opponeva da molto tempo. Ma il discorso in cui annuncia solennemente, nello sconcerto del mondo che ha visto i Talebani riprendersi l’Afghanistan in poche settimane e l’esercito afghano collassare istantaneamente, che è «tempo di porre fine alla guerra in Afghanistan» abita dentro il paradosso della guerra perpetua che Moyn espone nel suo libro.

Da una “forever war” a un’altra

Biden ha annunciato che un’operazione militare massiccia e ventennale che aveva come scopo dichiarato quello di sradicare le reti terroristiche che avevano attaccato l’America è giunta finalmente alla conclusione: ma allo stesso tempo ha detto che proseguirà con rinnovata convinzione una guerra agile, frammentata e transnazionale che ha uno scopo dichiarato non troppo distante dalle motivazioni che hanno giustificato l’invasione afghana. 

«Non ho voluto estendere questa “forever war”», ha detto Biden, usando l’espressione che comunemente identifica i conflitti post 11 settembre, ma allo stesso tempo ha promesso che l’America continuerà a combattere il terrorismo, secondo forme, strategie, modalità e architetture normative che hanno il terribile difetto di estendere i conflitti all’infinito nel tempo e nello spazio. Il discorso di Biden non segna la fine della guerra in Afghanistan, ma il passaggio da una “forever war” a un’altra.

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