In forme dirette o indirette, la Corte suprema è sempre al centro dell’azione dell’amministrazione Biden e del dibattito che lo vorrebbe protagonista di una presidenza trasformativa, e non soltanto di transizione.

La centralità della Corte suprema, che dopo la nomina trumpiana di Amy Coney Barrett è controllata da un’ampia maggioranza di giudici di orientamento conservatore (6-3), era già implicita nella scelta di nominare Merrick Garland nel ruolo di procuratore generale.

Garland è il giurista che era stato scelto da Barack Obama nell’ultima parte del suo secondo mandato per prendere il posto del giudice conservatore Antonin Scalia, morto nel febbraio del 2016, ma con una pervicace azione di ostruzionismo i repubblicani, che allora avevano la maggioranza al Senato, hanno impedito che la nomina arrivasse in aula, nella speranza – che poi si è materializzata – che un successore repubblicano alla Casa Bianca potesse esprimere una nomina conservatrice.

La ferita di Garland

La ferita del caso Garland non si è mai rimarginata. Anzi, è stata se possibile resa ancora più dolorosa dalla prodigiosa infilata di nomine di Trump alla Corte suprema: ha sostituito il conservatore “moderato” Anthony Kennedy con uno della sua stessa area, Brett Kavanaugh – contestatissimo dai democratici, ma non per ragioni strettamente giuridiche – e poi ha messo Barrett al posto della leggendaria icona liberal Ruth Bader Ginsburg, consolidando la maggioranza conservatrice.

La scelta di Biden di affidare proprio a Garland il dipartimento di giustizia è in parte un atto di riparazione per l’affronto subito, e il procuratore generale sta ripagando la fiducia con una serie di iniziative che mostrano l’attivismo dell’amministrazione in chiave giudiziaria.

Soltanto nell’ultima settimana Garland ha ordinato inchieste sui dipartimenti di polizia di Minneapolis e Louisville, ha fatto un esposto per crimini d’odio contro tre persone collegate all’omicidio di Ahmaud Arbery in Georgia, ha aperto indagini contro agenti accusati di avere fatto un uso eccessivo della forza in Louisiana e West Virginia e il suo dipartimento ha autorizzato la perquisizione dell’appartamento di Rudy Giuliani, eventualità che sarebbe stata assai improbabile sotto il precedente dipartimento di Giustizia. 

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Ma per molti democratici, immersi in una intensa dialettica fra centristi e radicali, il mutato clima nell’apparato giudiziario non è sufficiente. La Corte è saldamente nelle mani dei conservatori, per metà di nomina trumpiana, e la circostanza impone quello che in gergo si chiama “court packing”, il tentativo di forzare un riequilibrio politico della Corte attraverso l’estensione del numero dei giudici, che non è disciplinato dalla Costituzione.

La commissione bipartisan

Ad aprile Biden ha istituito con un ordine esecutivo una commissione bipartisan di esperti a cui ha affidato l’incarico di «offrire un’analisi dei principali argomenti nel dibattito pubblico contemporaneo a favore e contro la riforma della Corte suprema». Una dichiarazione piuttosto blanda per annunciare una rivoluzione. E infatti di rivoluzione non si tratta, anzi. 

Secondo Noah Feldman, professore di diritto costituzionale alla scuola di legge di Harvard, «scegliere di formare una commissione di esperti moderati e ragionevoli può soltanto segnalare una implicita preferenza di Biden per non espandere il numero di giudici della Corte suprema», cosa che equivarrebbe ad affossare i sogni della sinistra progressista che vorrebbe un’espansione per recuperare, con gli interessi, i torti commessi da Trump.

«Se Biden volesse cambiare il numero dei giudici della Corte suprema non avrebbe bisogno del parere degli esperti: verrebbe fuori con una proposta aggressiva e farebbe pressione sui deputati e senatori amici per approvare la riforma a livello legislativo», dice Feldman, che è di specchiate convinzioni liberal e assai critico verso l’attuale maggioranza conservatrice, ma giudica il “court packing” una misura emergenziale a cui ricorrere soltanto se l’istituzione stessa è messa in pericolo da un comportamento talmente ideologico e politicizzato dei giudici da rendere la massima corte qualcosa di radicalmente diverso dal luogo della mera interpretazione della Costituzione.

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A suo dire l’emergenza non è arrivata a questo livello istituzionale, e cita a proposito la sentenza, firmata dal conservatore Neil Gorsuch, che ha esteso in modo significativo le protezioni legali per le persone transgender. «Non necessariamente i giudici votano per produrre i risultati che preferiscono dal punto di vista ideologico», e in effetti il matrimonio gay, per fare l’esempio più ovvio, è stato dichiarato costituzionale da una maggioranza di conservatori.

Non solo: nel lungo periodo di dominazione conservatrice, i giudici hanno avuto diverse occasioni per smantellare la Roe v. Wade, la sentenza del 1974 che ha legalizzato l’aborto, ma non lo hanno fatto. 

I movimenti prudenti di Biden vanno letti con attenzione, perché nella sua carriera e nelle prese di posizione pubbliche la lotta in ambito politico-giudiziario e la prudenza istituzionale si intrecciano secondo modalità non sempre facili da sbrogliare.

Nel 1987, quando era a capo della commissione giustizia del Senato, Biden ha avuto un ruolo decisivo nell’affossare la nomina del giudice Robert Bork, scelto da Reagan, vicenda che ha innalzato in modo irreversibile il livello dello scontro politico sulla corte. È stato anche coniato nella circostanza il verbo “to bork”, che secondo l’Oxford dictionary non ha esattamente un significato improntato alla lealtà: «Diffamare o offendere sistematicamente una persona, specialmente sui media, solitamente per impedire che venga nominata per un incarico pubblico».

A forza di “borking” e ostruizionismi la Corte è diventata terreno di devastanti scontri politici, e ora che Biden dice che «non è un fan» del “court packing” e nomina una mite commissione perché gli suggerisca autorevolmente di non fare assoluatemente nulla, i compagni di partito alla sua sinistra rivangano i tempi in cui il vecchio leone dava battaglia.

La proposta di legge 

Qui la questione intrademocratica si complica. Perché una parte significativa del mondo liberal pensa invece che le nomine fatte dai repubblicani in generale e da Trump in particolare abbiano violato in maniera irreversibile l’istituzione che bilancia i tre rami del potere, e dunque è sostanzialmente illegittima.

Per loro la commissione bipartisan è un’iniziativa ai limiti dell’insulto, e infatti hanno introdotto un disegno di legge, co-firmato dal capo della commissione giustizia, Jerry Nadler, per estendere a 13 il numero dei giudici. Le motivazioni addotte per la riforma sono squisitamente politiche: i firmatari dicono che «i repubblicani hanno delegittimato l’istituzione» e che la Corte a maggioranza conservatrice «è stata ostile alla democrazia stessa». 

La speaker della Camera, Nancy Pelosi, che ha il suo bel daffare a sedare le agitazioni del partito, ha detto chiaramente che la legge non andrà da nessuna parte, ma è importante capire il gioco delle parti. Spiega Feldman: «In un certo senso, i democratici che propongono la legge stanno minacciando i giudici con la prospettiva del “court packing” per fare in modo che non votino in modo troppo conservatore». Detto altrimenti: esercitano pressione politica nella speranza di indirizzare le sentenze in loro favore.

Le analogie con quello che è successo nel secondo mandato di Franklin Delano Roosevelt sono imperfette, ma tuttavia utili per afferrare i termini del dibattito. Roosevelt, che nel primo mandato non aveva avuto l’occasione di nominare giudici, aveva minacciato di estendere la Corte per passare alcune parti decisive del New Deal. La cosa si è risolta senza un trauma istituzionale, ma attraverso il repentino cambio di coscienza del giudice Owen Roberts, che ha iniziato a votare a favore delle decisioni della Casa Bianca. 

Insomma, a Roosevelt è bastata la minaccia di una riforma per ottenere ciò che voleva da una maggioranza di giudici sulla carta ostile. Biden, che dimenticando per un attimo la modestia ha già detto in tutti i contesti che la sua ispirazione è la presidenza trasformativa di Roosevelt, potrebbe usare lo stesso metodo per risolvere il problema della Corte.

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