«In occasione della sua prima visita, nel 1973, è arrivato in Israele poche settimane prima che scoppiasse una guerra terribile, la guerra del Kippur. Questo viaggio invece è il viaggio della pace: la porterà dalla terra santa alla terra dell’Hijaz».

Con queste parole Isaac Herzog, presidente di Israele, ha accolto Joe Biden nel primo discorso di benvenuto dopo lo scenografico arrivo dell’Air Force One all’aeroporto di Ben Gurion di Tel Aviv, dopo gli inni israeliano e americano suonati dalle bande militari e la passerella con con il primo ministro Yair Lapid.

Alludeva al volo che dopodomani porterà Biden direttamente da Tel Aviv in Arabia Saudita, rompendo un tabù dovuto all’assenza di relazioni diplomatiche fra i due paesi. 

La cerimonia, presidiata da agenti dei servizi segreti americani e da forze speciali israeliane ma i cui protagonisti rimanevano relativamente accessibili al pubblico di giornalisti, diplomatici e funzionari, non era iniziata nemmeno da pochi minuti prima che facesse capolino la parola che più sta cuore agli israeliani: Iran.

«Discuteremo della necessità di rilanciare una coalizione globale contro il programma nucleare iraniano», ha detto il premier israeliano Lapid facendo eco a Herzog.

Di fianco a lui c’era anche il predecessore Naftali Bennett, che però non ha potuto intervenire con un discorso. «In passato lei si è definito sionista», ha continuato Lapid rivolgendosi a Biden. «Ha detto che non serve essere ebrei per essere sionisti, e aveva ragione. Lei è un grande sionista». 

Rapporti antichi con Israele

Biden è stato protagonista delle relazioni fra Stati Uniti e Israele fin dall’epoca di Golda Meir, l’unico primo ministro donna dello stato ebraico al governo a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta.

Da allora ha avuto incontri con tutti i leader del paese: nell’ordine Yitzhak Rabin, Menachem Begin, Shimon Peres, Yitzhak Shamir, Benjamin Netanyahu, Ehud Barak, Ariel Sharon, Ehud Olmert, e infine Naftali Bennett.

Era vicepresidente di Obama quando nel 2016 gli Stati Uniti hanno approvato un pacchetto da 38 miliardi di dollari di aiuti militari a Israele, il più grande di sempre.

Per quanto meno militante nelle posizioni filo israeliane rispetto a Trump e più aperto al dialogo coi palestinesi, Biden è considerato una colonna portante della “special relationship” fra Usa e Israele.

E ha voluto ricordarlo nel suo primo intervento. «Il primo presidente americano ad arrivare qui è stato Nixon nel 1974, ma io ero già stato qui da senatore nel 1973 e avevo incontrato Golda Meir con il suo assistente, un certo Yithzak Rabin», ha ricordato citando l’ex primo ministro israeliano ucciso nel 1995 dopo aver sfiorato la pace con gli accordi di Oslo. «Questa è la mia decima visita».

Durante il suo discorso all’arrivo Biden non ha nominato nemmeno una volta i palestinesi, salvo citare in un breve passaggio il sostegno alla soluzione a due stati.

Poco prima del suo arrivo il consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan aveva d’altronde avvertito che Biden «non farà proposte formali per il lancio di una nuova iniziativa di pace, ma incoraggerà entrambe le parti a trovare una strada».

E non ha affrontato subito il tema Iran, facendo invece un lungo excursus sulla necessità di non dimenticare la lezione della Shoah.

«È un onore visitare uno stato ebraico indipendente», ha detto, aggiungendo che «l’Olocausto comporta un senso del dovere che sentiamo tutti».

«Riaffermeremo la nostra partnership inossidabile nel settore della sicurezza, cooperando sui sistemi di difesa all’avanguardia come l’iron dome e il nuovo sistema a laser iron beat», ha continuato Biden.

Dopo i convenevoli e le dichiarazioni sul tappeto rosso il presidente americano ha infatti visionato i nuovi sistemi di difesa anti missilistica, per cui lo stato ebraico vuole il sostegno finanziario degli americani.

Netanyhu fa capolino 

Il palchetto delle autorità sotto il sole cocente dell’estate israeliana era affollato di ministri di alto livello fra cui quello delle finanze Avigdor Lieberman e quello della difesa Benny Gantz.

All’ultimo minuto, poco prima dell’arrivo di Biden, è comparso anche il leader dell’opposizione, Benjamin Netanyahu. L’ex premier non riveste al momento cariche istituzionali ma la caduta del governo Bennett lo ha rilanciato sulla scena politica nazionale in vista delle elezioni del prossimo primo novembre.

Al momento della foto di gruppo, riconoscendolo immediatamente fra i ministri e forte dei numerosi incontri avuti in passato, Biden ha dato una lunga stretta di mano a Netanyahu, ignorando al suo fianco l’ex premier Bennett.

I canali social del primo ministro, già in piena campagna elettorale, hanno rilanciato l’episodio per ribadire la sua maggiore statura sul piano internazionale.

Al momento di andarsene, Netanyahu si è portato dietro un codazzo di folla che per un attimo è sembrato rubare la scena ai protagonisti istituzionali. 

«Bisogna portare nuovi accordi di pace con il mondo arabo, con e oltre l’Arabia Saudita», ha detto lasciando l’aeroporto. «Quanto all’Iran, non esiste soluzione che non comporti una vera minaccia militare (nei confronti di Teheran)».

Secondo gli ultimi sondaggi il Likud di Netanyahu sarà nuovamente primo partito in occasione delle prossime elezioni, ma questo può non essere sufficiente ad assicurarsi una maggioranza in parlamento e costruire una coalizione di governo. 

Il caso Abu Akleh

In concomitanza con l’arrivo di Biden in Israele la Casa Bianca ha fatto sapere, sempre tramite Sullivan, di aver invitato la famiglia della giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh a Washington.

A gettare un’ombra sul riavvicinamento americano ai palestinesi dopo la stagione di Trump c’è infatti il caso della giornalista palestinese-americana uccisa durante un’incursione dell’esercito israeliano a Jenin in Cisgiordania lo scorso 11 maggio.

Dopo un reciproco scambio di accuse fra il governo israeliano e l’autorità palestinese diverse inchieste giornalistiche e di organizzazioni non governative hanno concluso che il proiettile letale sarebbe stato sparato dalle forze speciali israeliane.

Tuttavia l’attesa perizia condotta dall’ambasciata statunitense, che doveva dirimere definitivamente la questione dopo che Ramallah si era decisa a consegnare il proiettile, si è risolta in un nulla di fatto, in cui Washington dichiarava impossibile stabilire con certezza l’origine dello sparo.

La famiglia della giornalista, che accusa addirittura i militari di averla uccisa in modo deliberato, ha dichiarato che gli Stati Uniti si sarebbero piegati alle pressioni israeliane e ha convocato una protesta rivolta a Biden a Gerusalemme. L’invito negli Stati Uniti appare dunque un modo con cui rinviare la questione a dopo la visita.

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