Durante la campagna elettorale americana del 1972 Andy Warhol, che detestava Richard Nixon, realizzò un’opera grafica che si presentava come un manifesto elettorale a favore del candidato democratico George McGovern. Contrariamente a quanto tutti si aspettavano e ribaltando la logica dei manifesti elettorali, Warhol accompagnò la scritta «Vote McGovern» con la faccia di Nixon, rappresentato in modo molto poco attraente, con labbra e cornee gialle e il volto per metà verde e per metà azzurro, facendolo apparire livido di rabbia.

Warhol realizzò inoltre una tiratura di poster la cui vendita fruttò alla campagna di McGovern quarantamila dollari e a Warhol, dopo la vittoria di Nixon, una serie di puntigliosi controlli fiscali. Sul fatto che quei controlli fossero voluti dal presidente o dal suo entourage non ci sono prove, tuttavia anche altri intellettuali e artisti che avevano contribuito alla campagna, per esempio Norman Mailer, Terry Southern, Robert Rauschenberg, furono presto colpiti da ripetuti controlli nei quali molti videro una punizione per il loro impegno.

Warhol dovette pagare le tasse anche sui poster che aveva donato per sostenere McGovern. Anche Rauschenberg ebbe i suoi guai: «Riuscirono a ridurmi quasi sul lastrico» dichiarò in seguito. «Gli agenti del fisco mi dissero che se non avessi firmato le cambiali sarebbero andati a far la stessa cosa da tutti gli amici». Rauschenberg aveva già manifestato la sua avversione per Nixon durante la campagna presidenziale del 1960. Tra il 1958 e il 1960 aveva illustrato l’Inferno di Dante e, in una delle sue tecniche miste, aveva disegnato Nixon tra i violenti immersi in un fiume ribollente di sangue.

Intervento situazionista

L’immagine propagandistica di Warhol a favore di McGoverm è stata un intervento artistico di chiaro stampo situazionista, riferibile alla pratica del détournement, che consiste nell’intervenire su un’immagine nota o rassicurante sconvolgendone il significato. Un artista che oggi usa molto questa tecnica è Banksy, basti pensare al suo contestatore ripreso nell’atto di lanciare un mazzo di fiori al posto di una molotov o al ritratto della regina Elisabetta con la faccia da scimmia.

Che l’idea di Warhol abbia lasciato il segno lo testimonia il fatto che in occasione delle elezioni del 2016, che vedevano Donald Trump contrapposto a Hillary Clinton, l’artista newyochese Deborah Kass ha ripreso con lo stile e i colori di Warhol il volto di Trump scrivendovi sotto «Vote Hillary». È stato invece più canonico l’intervento del 2008 realizzato da Frank Shepard Fairey (noto come Obay) a sostegno di Obama, raffigurato con la tecnica della solarizzazione dell’immagine serigrafata a tinte piatte tipica della pop art. Nel caso del poster di Obey il tratto accurato del disegno e i colori danno una percezione positiva del soggetto e, soprattutto, accompagnare l’immagine con la scritta «Hope» ha reso il messaggio subito chiaro.

Che gli artisti e gli intellettuali si impegnino manifestando le loro idee politiche non è una novità, come non lo è che le per loro azioni rischino di pagare poi un prezzo. Quello pagato da Warhol, Rauschenberg, Southern o Mailer non ha funzionato tuttavia da deterrente per iniziative simili.

Non sorprende che Trump sia osteggiato nel mondo dell’arte. Tralasciando le ragioni di ordine politico ed economico, va ricordato che secondo lui l’arte è una via di mezzo tra una truffa e un modo per far soldi facilmente. Ha raccontato di avere un amico pittore che gli aveva spiegato che bastava una manciata di minuti per guadagnare venticinquemila dollari. Gli era sufficiente versare direttamente dal barattolo sulla tela stesa a terra quattro diversi colori. Inoltre, incapace di leggerle nel loro senso più autentico, Trump ha preso alla lettera due note frasi di Warhol, tanto da twittare il 24 giugno 2014: «Essere bravi negli affari è il genere di arte più affascinante». È tornato a twittare la stessa frase il 9 marzo del 2015 aggiungendo che «Essere bravi negli affari è il genere di arte più affascinante». La stima di Trump per Warhol non era corrisposta dall’artista che nel suo diario gli aveva dedicato parole poco lusinghiere.

Mai come in questa campagna presidenziale il mondo dell’arte americano si è mobilitato per tentare di impedire che un presidente sia rieletto. Artisti del calibro di Richard Serra, Sean Scully, Ed Ruscha, Carrie Mae Weems, Shepard Fairey o Deborah Kass hanno realizzato grandi cartelloni pubblicitari con messaggi pro Biden o anti Trump, alcuni aderendo a delle organizzazioni, altri lavorando in autonomia, come ha fatto per esempio Scully, autore peraltro in passato di un’iniziativa simile pro Obama. Molto battuta anche la rete. Eric Fischl, pittore realista divenuto famoso negli anni ottanta, ha postato su Instagram ritratti di Trump con il naso rosso da clown o con un’immagine del coronavirus al posto del naso per denunciare le tante bugie diffuse sui contagi.

Per finanziare la campagna elettorale di Biden, la pittrice Dana Schutz ha messo all’asta Trump Descending an Escalator, un dipinto del 2017 battuto il venti ottobre a Londra da Phillips per 711mila dollari. L’opera, un chiaro riferimento al Nudo che scende le scale (1912) di Marcel Duchamp, raffigura Trump, rosso in volto e minaccioso, colto mentre scende le scale mobili della Trump Tower nel giorno dell’annuncio della sua prima campagna presidenziale. «Volevo cogliere quel momento di suspense in cui si sa che sta per accadere qualcosa e non si può far nulla per evitarlo» ha spiegato l’artista, che ha ritratto il presidente mentre «sta venendo giù, trascinando noi tutti ai livelli più bassi». Assai dura anche Deborah Kass, l’autrice del noto poster «Vote Hillary», che a pochi giorni dalle elezioni dice: «Sono una newyorchese. Sappiamo chi è Trump: un buffone incompetente e pericoloso, uno stupido ragazzino viziato, un terribile uomo d’affari, un velenoso razzista, un criminale, un misogino, un omofobo, un predatore sessuale, un bugiardo, un riciclatore di denaro sporco. Ed è davvero molto stupido, perché ha fatto tutto orgogliosamente e chiassosamente davanti agli occhi di tutto il mondo. Prima del suo maligno mandato presidenziale New York era la scena dei suoi crimini. Noi che lo conosciamo abbiamo votato in massa contro di lui».

Le azioni più eclatanti

Tra le azioni promozionali più eclatanti e spettacolari ci sono i grandi manifesti pubblicitari. L’organizzazione progressista People for the American Way ha promosso la campagna Enough of Trump , che vede coinvolti una dozzina di artisti tra cui i già citati Ruscha, Serra e Weems. Ideata dal noto produttore televisivo Norman Lear, la campagna ha raccolto più dei 150mila dollari che si prefiggeva di ottenere anche grazie ai proventi della vendita di mascherine, borse e magliette con il logo della campagna, e soprattutto di stampe a tiratura limitata di Ruscha e Serra. L’artista nera Carrie Mae Weems, che per anni è stata impegnata con People for the American Way, ha dichiarato che l’iniziativa non mira solo a un cambio di presidenza e non porta avanti semplicemente un messaggio in favore del Partito democratico, ma è prima di tutto una battaglia per i diritti civili. Dal canto suo Shepard Fairey, che ha definito Trump un pericoloso demagogo, un bigotto egocentrico e un sessista, ha realizzato tre opere grafiche da cui sono stati ottenuti anche dei poster. I poster presentano donne musulmane, latine e afroamericane, gruppi presi di mira o trascurati da Trump.

Insieme agli artisti Jessica Sabogal ed Ernesto Yerena, Fairey ha collaborato con la fondazione Amplifier per produrre opere che hanno portato alla campagna We the People un milione e trecentomila dollari. Le stesse immagini di questi poster, che sono stati affissi sui muri delle strade, sono state utilizzate anche per delle inserzioni pubblicitarie a pagina piena sul Washington Post. Altro progetto volto a contrastare Trump è Remember What They Did, studiato e realizzato dall’artista visivo e filmaker Robin Bell e da Scott Goodstein, considerato un «punk politico». Bell è noto a Washington per avere, tra l’altro, proiettato sul Trump Hotel messaggi come «pagate qui le tangenti di Trump» o «merdaio». I due hanno dato vita al progetto Remember What They Did insieme a un comitato di azione politica chiamato Artists United for Change. Per capire quanto sia imponente la portata del progetto basti pensare che il costo di affitto di ogni singolo cartellone si aggira attorno ai dodicimila dollari al mese. Gli artisti che vi hanno partecipato hanno ricevuto mille dollari e potuto mantenere i diritti delle loro opere.

Artisti concettuali

Le iniziative anti Trump hanno visto coinvolti anche l’artista concettuale Hans Haacke e il New Museum di New York. Nella sua mostra antologica chiusasi alla fine di gennaio al New Museum, Haacke, con chiaro riferimento a Trump, ha chiesto ai visitatori di rispondere a un sondaggio nel quale chiedeva loro tra l’altro: «Pensi che il Paese in cui vivi abbia delle leggi adeguate e pienamente applicate che impediscono agli individui di evadere le tasse trasferendo un indirizzo in un paradiso fiscale e/o camuffando la propria identità?» I risultati del sondaggio, riportati e aggiornati in tempo reale su uno schermo, hanno indicato che circa l’ottantacinque per cento degli intervistati ha risposto negativamente. Se i dati raccolti da Haacke avessero un riscontro nella società americana la sorte di Trump come Presidente sarebbe già segnata. Ma il mondo dell’arte non sempre è lo specchio del mondo reale: non ci rimane che aspettare martedì.

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