Washington pretende l’aiuto di Pechino, eppure continua a prenderla a schiaffi. Questa contraddizione, messa in evidenza da analisti e commentatori locali, è apparsa stridente in occasione della visita in Cina di Antony Blinken, che si conclude questo venerdì con l’incontro con il suo omologo Wang Yi.

La Cnn ha anticipato il «duro avvertimento» di cui è latore il segretario di Stato, a 24 ore dall’approvazione a Washington di un pacchetto di aiuti per la difesa dell’Ucraina da 61 miliardi di dollari. All’inviato di Joe Biden è stato affidato il compito di convincere la leadership cinese a fermare l’esportazione verso Mosca di quella tecnologia a doppio impiego (civile-militare) che, secondo gli Usa e l’Unione europea, ha contribuito a rinvigorire l’industria bellica russa.

L’anno scorso il commercio bilaterale tra i due paesi confinanti ha raggiunto il valore record di 240 miliardi di dollari (+26,3 per cento rispetto al 2022). E così, alla vigilia della mission impossible di Blinken, il Wall Street Journal ha rivelato che l’amministrazione Biden ha finalmente preparato una lista di banche cinesi da tagliare fuori dal circuito finanziario internazionale nel caso che a Pechino facessero orecchie da mercante. Ripetutamente annunciate, queste sanzioni non si sono mai materializzate, per i timori del terremoto che una reazione di Pechino potrebbe scatenare nei mercati.

Pressione continua

Il problema per Pechino è che lo stesso Senato che ha varato le ultime, massicce forniture militari per Kiev ha contestualmente approvato 8 miliardi di dollari per il sostegno agli alleati nel Pacifico (2 miliardi dei quali andranno a Taiwan) e ha detto “sì” alla messa al bando negli Stati Uniti di TikTok. La parola definitiva sul destino della app cinese di maggior successo all’estero ora passa al presidente Biden, il quale la settimana scorsa ha invitato formalmente la sua rappresentante per il Commercio, Katherine Tai, a triplicare i dazi d’importazione (attualmente al 7,5 per cento) sull’acciaio e sull’alluminio cinese, dopo aver lanciato un’inchiesta sui rischi che i veicoli elettrici cinesi rappresenterebbero per la “sicurezza nazionale”.

Iniziative protezionistiche che Biden, in campagna elettorale, promuove per difendere «il duro lavoro di migliaia di famiglie americane» e che si sommano al rafforzamento delle alleanze “anti Cina” nel Pacifico, con il Giappone e con le Filippine in particolare. A Pechino queste mosse vengono interpretate come parte di un “containment” da nuova Guerra fredda, in linea con la visione della Cina come «sfida geopolitica più importante dell’America», così definita nella Strategia di sicurezza nazionale di Biden.

Gli sviluppi delle ultime settimane certamente non favoriscono la distensione, tuttavia non interromperanno il dialogo tra i due governi, ripartito con il summit tra Biden e Xi Jinping del 15 novembre scorso, un rinnovato “franco” confronto nel quale la visita di Blinken si inquadra (dopo la telefonata Biden-Xi all’inizio del mese e la lunga visita in Cina della segretaria al Tesoro, Janet Yellen). Pechino non ha alcuna intenzione di andare allo scontro con un’amministrazione che scadrà tra pochi mesi.

La ricerca della collaborazione sull’Ucraina e sul Medio Oriente (Washington ha chiesto a Pechino di fare pressione su Teheran per frenare gli attacchi delle milizie houthi e per limitare le reazioni iraniane ai raid israeliani) richiederebbe però secondo Pechino modalità d’approccio consone all’influenza che gli Stati Uniti riconoscono alla Cina.

Taiwan e Xinjiang

«Il diritto della Cina di condurre normali scambi economici e commerciali con tutti i paesi del mondo – inclusa la Russia – sulla base dell’uguaglianza e del vantaggio reciproco non può essere ostacolato o danneggiato, e i diritti e gli interessi legittimi della Cina non possono essere violati», ha protestato Wang Wenbin. Con evidente riferimento all’investimento Usa nella difesa dell’Ucraina, il portavoce del ministero degli Esteri ha aggiunto: «Ci opponiamo fermamente alla pratica ipocrita degli Stati Uniti di gettare benzina sul fuoco incolpando la Cina». E ancora: «Quella ucraina non è una questione tra la Cina e gli Stati Uniti, e gli Stati Uniti non devono trasformarla in un problema tra la Cina e gli Stati Uniti».

Pechino continua a difendere la sua formale neutralità nel conflitto, alla vigilia del quarantatreesimo incontro tra Xi Jinping e Vladimir Putin in 12 anni, previsto per il mese prossimo, e nonostante l’obiettivo comune, dichiarato dai due leader, di un nuovo ordine “multipolare” che soppianti quello liberale.

Poi ci sono gli altri dossier aperti, altrettanto scottanti. Su Taiwan, Blinken vuole coordinarsi con i cinesi per evitare incidenti in occasione dell’insediamento, il 20 maggio prossimo, del nuovo presidente, William Lai Ching-te. Il mar Cinese Meridionale, con la tensione altissima tra le guardie costiere filippina e cinese nelle isole contese. E lunedì scorso è stato pubblicato il rapporto annuale sui diritti umani del dipartimento di Stato, nel quale Blinken ha accusato la Cina di «gravi violazioni dei diritti dell’uomo» e di «genocidio» della minoranza di etnia uigura, dopo che, negli ultimi mesi, Pechino ha lanciato una campagna mediatica per mostrare che la situazione nella regione nord-occidentale del Xinjiang è finalmente sotto controllo e che la popolazione musulmana ha abbracciato il «sogno cinese» promosso da Xi.

Tutte questioni spinosissime, rispetto alle quali la strategia di Pechino è quella dell’attesa. E così a Blinken il suo omologo Wang Yi ha presentato quelli che dovrebbero essere cinque obiettivi da condividere (instaurare la giusta mutua comprensione, rafforzare il dialogo, affrontare con efficacia le differenze, promuovere la cooperazione reciprocamente vantaggiosa, farsi carico assieme delle responsabilità dei grandi paesi). Insomma, prendere tempo, perché tra pochi mesi la Casa Bianca potrebbe avere un nuovo inquilino (a proposito, sui social cinesi è di nuovo Trump-mania).

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