L’èra turbolenta della pax americana, il trentennio che è sorto sulle rovine del blocco sovietico e adesso tramonta in Ucraina, potrebbe spegnersi lì dove è cominciata: in Bosnia.

Vari segnali suggeriscono che Putin potrebbe presto sorprenderci patrocinando la secessione della repubblichetta serba di Bosnia. Obiettivo: riportare la guerra nei Balcani, aggiungere altri rifugiati e altra instabilità, spaventare e ricattare la Ue, costringerla ad alleggerire sanzioni che col tempo strangoleranno la sua economia.

Che questa o altra sia la sequenza, la prospettiva che lo Zar del kaos in Bosnia prepari qualcosa è così presente agli europei che i ministri degli Esteri dell’Unione ne hanno discusso lo scorso 18 marzo. Secondo il ministro austriaco, Alexander Schallenberg, «la Bosnia non deve diventare il terreno di gioco per attori esterni all’Europa». 

Le sanzioni

Ma la determinazione che sembra vibrare in quel «non deve», non trova un corrispettivo in atti conseguenti. Dalla riunione non è uscito neppure un rafforzamento delle sanzioni contro l’entità serba e il suo gruppo dirigente, che da tempo procede verso la secessione.

Le sanzioni non convincono Slovenia, Ungheria e soprattutto Croazia: Zagabria ha da sempre l’ambizione di ritagliarsi il “suo” pezzo di Bosnia, l’Erzegovina, e la secessione serba gli offrirebbe l’occasione di arraffarlo.

Inoltre la Bosnia è di fatto l’ultima Jugoslavia, l’ultimo progetto multietnico sul suolo un tempo appartenuto alla federazione. E Slovenia e Croazia sono appunto le due repubbliche che hanno avviato lo smembramento e la riconfigurazione dello spazio jugoslavo secondo identità etniche. Se Putin dà una mano ora potrebbero finire il lavoro. 

La sfida per l’Europa è tanto più spiazzante perché in Bosnia l’Unione ha ancora una piccola missione militare, l’Eufor, collegata al Consiglio di sicurezza (dove siede anche la Russia), con il compito di addestrare l’esercito bosniaco e garantire sicurezza alla repubblica.

La missione Eufor

Per rafforzare l’Eufor gli europei dovrebbero trovare una linea strategica comune, e quando si tratta di mettere d’accordo 27 associati perfino una riunione di condominio diventa problematica, se le decisioni prevedono l’unanimità.

Infine alcuni tra i 27 – come appunto Croazia, Slovenia e l’Ungheria di Viktor Orbán – non sono compiute democrazie liberali, ma ibridi piuttosto inquietanti che condividono non poco con Putin, inclusa una certa ossessione per l’omogeneità etnica. 

Che la secessione serba s’intrecci alla guerra ucraina in modo non estemporaneo lo racconta, con la sua linearità, la progressione degli eventi. Stando ad analisti militari negli ultimi mesi Belgrado ha infittito gli acquisti di armi dalla Russia, soprattutto missili anticarro, presumibilmente ottenute a prezzo politico e destinate alla Republika Srpska, l’entità serba della federazione bosniaca.

In dicembre il presidente della RS, Milorad Dodik, ha incontrato Putin a Mosca. Dodik ha annunciato progetti di fatto secessionisti che sulla carta prevedono un sistema giudiziario indipendente, un regime fiscale autonomo e un esercito proprio, formato dai resti delle milizie che trent’anni fa sono state responsabili di sistematiche pulizie etniche (alcuni di questi guerrieri sarebbero accorsi in Ucraina per combattere al fianco dei russi; la propaganda russa sostiene al contrario che “estremisti” bosniaci oggi stiano combattendo con gli ucraini).

La telefonata di Lavrov

Ma è stato il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, a interconnettere la guerra in corso e la Bosnia: malgrado in questi giorni sia comprensibilmente occupato, ha trovato il tempo per telefonare a Dodik  («a Sarajevo sono convinti che la chiamata di Lavrov sia stato un incitamento a dare corso alla secessione», scrive l’analista Ismet Fatih Čanča).

Poi l’ambasciatore russo a Sarajevo ha sbrigativamente intimato ai bosniaci di starsene lontano dalla Nato. E il segretario della Nato, Jens Stoltenberg, ha citato la Bosnia, insieme a Georgia e Moldavia, tra i nuovi fronti che Putin potrebbe aprire. 

La confluenza in Bosnia dei due nazionalismi panslavi, quello russo e quello serbo, non è solo tattica: entrambi condividono il progetto di riunificare le minoranze oltreconfine nel nome di mitologie fondative e così riparare a quegli oltraggi alla storia rappresentati dalla nascita di nazioni spurie, artificiali, “meticce”, quali sarebbero appunto Bosnia ed Ucraina.

La piccola Europa riuscirà a scongiurare il progetto della Grande Serbia? Sarajevo chiede sottovoce l’invio di soldati, Eufor o Nato, purché in grado di mettere in riga i secessionisti e gli irregolari russi che verosimilmente li appoggeranno.

Se il pacifismo volesse tentare di scongiurare l’eventuale ingresso in campo di soldati occidentali dovrebbe muoversi in fretta, catapultarsi a Belgrado e a Banja Luka, e poi far sapere se esiste, o no, lo spazio per una “soluzione politica”.

La bussola strategica

Invece la Ue potrebbe domandarsi se proprio la Bosnia non imponga di accelerare i tempi di quel strategic compass, o bussola strategica, appena approvata dal Consiglio dell’Unione.

Prevede tra l’altro la costituzione di una forza d’intervento rapido composta da 5.000 soldati, «per migliorare la capacità dell’Ue di agire con decisione in situazioni di crisi». Quel nucleo iniziale non basterebbe a rassicurare i bosniaci, ma potrebbe accompagnare uno sforzo europeo per trovare una soluzione, con o senza il coinvolgimento diretto di Washington e della Nato.

Nel 1992, quando hanno preteso di risolvere da soli la crisi bosniaca, gli europei hanno indirizzato la guerra nelle direzioni più utili ai piani spartitori di Serbia e Croazia. Risultato, oltre centomila morti. Non sarà facile riscattare quel passato indecente.


 

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