Trent’anni sono un periodo sufficiente perché un paese faccia i conti con la storia e con le proprie colpe. In questi giorni il trentesimo anniversario dell’inizio della guerra di Bosnia offriva appunto una di queste occasioni. Ma i media e la politica non l’hanno colta, forse distratti da questioni più urgenti, forse per evitarsi imbarazzi. Eppure non sarebbe stato un esercizio inutile, avrebbe chiarito questioni irrisolte che il conflitto in Ucraina ripropone. Allora come oggi, la tecnica per costruire una narrazione falsa ma conveniente rimane identica. Come in seguito confermarono inequivocabilmente le sentenze del Tribunale dell’Aja, la guerra di Bosnia fu una guerra d’aggressione, organizzata e diretta da Serbia e Croazia con l’obiettivo di spartirsi la repubblica aggredita.

Odiare il vicino

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Se l’Italia e l’Europa avessero preso atto di questa verità sarebbero stati in obbligo di schierarsi con le vittime contro gli aggressori. Ma accadeva che le vittime, i bosniaci, fossero per gran parte musulmani; mentre gli aggressori erano tutti cristiani (più esattamente, nazionalisti che usavano la fede come fondamento della propria identità etnica).

E l’idea di difendere i musulmani dai cristiani, adottando azioni forti e accettando i rischi conseguenti, era assai impopolare, nelle redazioni e nei partiti, e anche nel governo. Di conseguenza si virò su una narrazione che da una parte riconosceva le colpe della Serbia ma dall’altra attribuiva l’origine del conflitto a una storica disponibilità all’odio etnico che, si sosteneva, affliggeva tutti i belligeranti.

Questa formidabile capacità di odiare il vicino era in genere desunta dalla letteratura del primo Novecento, ma non trovava alcuna conferma nelle dinamiche demografiche, da cui risultava, al contrario, che quasi un terzo dei matrimoni celebrati a Sarajevo e a Mostar alla vigilia della guerra erano misti.

Nondimeno raccontare la Bosnia come terra di odiatori furibondi serviva a suggerire che anche le vittime fossero in qualche modo colpevoli. E se tutti erano in qualche modo colpevoli, l’Europa era assolta dal dovere di schierarsi.

Equivalenza delle colpe

Ricorre a una tecnica simile chi di fronte alla guerra in Ucraina deplora l’invasione ma allo stesso tempo costruisce una narrazione nella quale anche gli aggrediti sono colpevoli: Volodymyr Zelensky un invasato irresponsabile, l’esercito ucraino uno strumento della Nato, la Nato il burattinaio che ha costruito le premesse del conflitto… non ci sono innocenti, solo colpevoli.

Ma il fatto che comportamenti Nato e ucraini furono provocatorii, o che anche la Bosnia recluse nemici in un lager, non cambia la sproporzione tra le responsabilità dell’aggressore e le responsabilità dell’aggredito.

Se però questa sproporzione viene omessa, insinuare l’equivalenza delle colpe permette una narrazione finto neutralista in cui le guerre sono tutte uguali, un unico mostruoso mostro mitologico, astratto, impersonale, precipitato del male che si annida in ogni società. Dunque se muoiono civili ucraini la colpa non è tanto di chi li ammazza, ma della guerra, lo schifosissimo Cerbero che i suoi servi, i guerrafondai, nutrono inviando armi ad una delle parti.

Le armi

Madeleine Albright, segretario di stato americano, era amata o odiata nei Balcani per il suo ruolo durante le guerre degli anni Novanta (foto AP)

Il dilemma delle armi – inviarle o no? – accomuna le due guerre. Quando in Bosnia si cominciarono i combattimenti le Nazioni Unite imposero un embargo sulle armi che colpiva solo gli aggrediti, l’unico belligerante che non era in grado di riceverle (solo sul finire del conflitto arrivarono a Sarajevo e Tuzla forniture clandestine turche).

Bill Clinton lo fece presente a francesi e britannici, membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Ma quelli risposero che non erano disponibili a togliere l’embargo, o a correggerlo.

Argomentarono «che più armi avrebbero alimentato il bagno di sangue; ma in privato (…) obiettavano che una Bosnia indipendente sarebbe stata una presenza “innaturale”, in quanto unica nazione musulmana in Europa (…). In particolare Mitterand era stato schietto nel dire che la Bosnia non apparteneva all’Europa, e anche alti dignitari britannici parlavano di una dolorosa ma realistica restaurazione dell’Europa cristiana» (Taylor Branch, The Clinton Tapes).

In sostanza gli europei attesero che i mal armati bosniaci si arrendessero, di modo che il continente non fosse più sporcato da un paese a maggioranza musulmana. Questo calcolo fu portato avanti utilizzando lo stemma delle Nazioni unite, ovvero l’istituzione che impersona l’aspirazione alla pace della comunità internazionale, e si ammantò dei pretesti morali prestati dal pacifismo, che dunque fu usato e si lasciò usare.

Ingenuità? Semmai pigrizia intellettuale ed etica. Non occorre uno sforzo particolare per intendere che quando un esercito forte attacca un esercito debole, come oggi in Ucraina, l’equidistanza, e la conseguente inazione, assecondano l’aggressore. Più che di equidistanti a rigore si dovrebbe parlare di poco distanti.

La loro distanza dal forte e dal debole non è affatto eguale: sono vicini al primo e lontani dal secondo. È una scelta, ma andrebbe dichiarata nei suoi termini reali, e con pudore, cioè rinunciando a maschere morali.

Scoperte posticce

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La guerra di Bosnia finì quando un riluttante Bill Clinton mise in campo l’aviazione americana, formalmente Nato. Alcuni governi europei bofonchiarono in segreto e applaudirono in pubblico. Esclusa la sinistra radicale, tutti i partiti apprezzarono. Ma che la loro scoperta dei diritti umani fosse un po’ posticcia lo confermò subito dopo l’indifferenza con la quale ignorarono la pulizia etnica lanciata dall’esercito croato nella Krajina serba e secessionista (un’eccezione: Lamberto Dini, all’epoca ministro degli Esteri).

Cominciò ad essere chiaro che la fine del Blocco sovietico non aveva migliorato di molto il pianeta. Però aveva favorito un allineamento in politica estera tra culture politiche che è stata la costante di questo trentennio.

Da qui le scelte simili operate dalla sinistra e dalla destra: entrambe assecondarono il disfacimento della federazione jugoslava; furono egualmente poco distanti nella guerra di Bosnia; fecero propri idee e pregiudizi propalati dalla “guerra al terrorismo” di Bush; seguirono con blande perplessità l’avventura americana in Iraq; condivisero con gli americani il terribile fiasco in Afghanistan si arruolarono nella guerra neo coloniale di Nicolas Sarkozy in Libia; vararono politiche simili sui migranti in arrivo dal mare.

Il disallineamento

Ora la guerra dell’Ucraina pare aver avviato un disallineamento. In apparenza il sistema politico non è cambiato, tanto meno nei suoi vizi strutturali: l’assenza di sistemi concettuali che favoriscano letture originali e distinte; la diffidenza della politica professionale verso l’elaborazione intellettuale, inadatta alla comunicazione televisiva; la selezione dei mediocri praticata a scapito delle teste pensanti.

Però adesso si assiste a una inedita scomposizione della sinistra e della destra, trasversalmente divisi in favorevoli e contrari all’invio di armi all’Ucraina. Insieme al trentennio della cosiddetta pax americana possiamo cominciare ad archiviare anche la geografia politica tradizionale? 

Nei duelli rusticani messi in scena dalla tv dell’Alterco al momento non affiorano i fondamenti di un nuovo pensiero politico. E finché non ascolteremo una parola onesta su quel che accadde in Bosnia, saremo portati a credere che qualcosa non torni in certi scontri tra chi da trent’anni fa si sottrae alla verità.

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