Ci sono voluti più di sei mesi, sei mesi di serrate alle frontiere interne d’Europa e sei mesi di misure scoordinate tra un paese e l’altro per proteggersi da Covid-19, e ora forse l’Europa comincia a correre ai ripari. Agli stati membri Bruxelles manda a dire che, dopo l’esperienza fatta, ora bisogna prepararsi a reagire adeguatamente a una seconda ondata, o meglio, “evitare una seconda ondata di azioni scoordinate”. E se non esiste la libera circolazione allora frana la stessa idea di Unione, oltre al fatto che l’economia sprofonda ancora di più: in tempi non sospetti (nel 2016) Bruxelles si era esercitata nella stima di una Unione senza Schengen (cioè con il ritorno dei controlli alle frontiere) e ne aveva concluso un costo tra i 5 e i 18 miliardi all’anno.  

Cosa propone ora Bruxelles. La presidenza tedesca e la Commissione europea, dopo aver trovato un primo riscontro positivo dei governi, fanno trovare questo 2 settembre una proposta sul tavolo del Coreper, cioè il consesso dei rappresentanti permanenti dei governi del’Ue; il Coreper non ha il potere di decidere, ma prepara i lavori del Consiglio e quindi spiana la strada per una iniziativa comune. L’obiettivo per Bruxelles è che la libertà di circolazione venga limitata il meno possibile, solo quando è indispensabile in ragione della salute pubblica, e comunque coordinandosi tra stati. Facile a dirsi, difficile nella pratica: perché ciò avvenga, bisogna essere in condizione di misurare con parametri comuni il pericolo. E’ necessario mettere in piedi, dice Bruxelles nel suo piano, un pacchetto di criteri condivisi per determinare il rischio epidemiologico, saper codificare nella stessa maniera le aree a rischio (noi conosciamo le “zone rosse”, i francesi le “verdi, arancioni e rosse”, e ogni paese al momento le codifica a modo suo); e infine stabilire un approccio comune su test e quarantene per chi rientra da un viaggio in zone a rischio. 

Qual è la situazione finora. L’ultima a fare scalpore è l’Ungheria: il 31 agosto ha comunicato alla Commissione di aver chiuso le frontiere per un mese. L’accordo di Schengen prevede che gli Stati possano reintrodurre i controlli ai confini, ma solo in casi eccezionali e se è proprio necessario. Soprattutto, le misure non possono essere discriminatorie, invece Budapest ha annunciato misure più “leggere” per i cittadini dei paesi di Visegrad; la commissaria alla giustizia Ylva Johansson ha infatti bacchettato il governo. Per Covid-19 risultano ancora “chiuse” anche Danimarca, Finlandia, Lituania e Norvegia. E questa è una fase di disgelo rispetto ai momenti più acuti dell’epidemia: a fine marzo 21 paesi avevano ripristinato le frontiere; alcuni parzialmente, per esempio la Germania il 16 marzo “solo” verso Francia, Austria, Svizzera, Lussemburgo e Danimarca. La Francia quello stesso giorno si era sigillata: neppure i paesi fondatori d’Europa insomma hanno opposto resistenza alla chiusura. Eppure per lungo tempo il tema è rimasto tabù, per le istituzioni Ue e non solo. Il 23 febbraio il premier Giuseppe Conte affermava: “Sospendere Schengen? E che vogliamo fare, dell’Italia, un lazzaretto?”. 

Cosa non ha funzionato. Come mai Bruxelles non è stata in grado di prendere in mano la situazione negli scorsi mesi? In parte per la (debole) incisività politica della commissione von der Leyen e in parte per il quadro legislativo dell’Unione. Ognuno è andato per conto suo anche perché gestire la libera circolazione presuppone di aver allineato i criteri usati per l’epidemia. Quando il 15 aprile la Commissione ha delineato il piano per alleggerire le misure di contenimento, tra i criteri ha messo: la situazione epidemiologica nell’area, la resilienza del sistema sanitario e la capacità di monitorare la diffusione del virus. Ma questi criteri saltano se ogni paese misura i dati a modo suo, se le politiche sanitarie sono di competenza nazionale e se l’idea del commissario Thierry Breton di una app di tracciamento che sia interoperabile in tutta Europa è fallita (perché la Francia con la sua “StopCovid” ha agito di testa sua). “La vera svolta per le frontiere sarebbe in realtà una politica sanitaria comune, su cui si stanno impegnando solo due gruppi europei, socialdemocratici e renew” dice il giurista Alberto Alemanno. “Per gestire a livello europeo la salute pubblica bisogna leggere in modo estensivo i trattati o riformarli. Del resto è a colpi di emergenze che ci si evolve: successe con la libera circolazione durante la crisi della mucca pazza; ora è più complicato: gli infetti siamo noi uomini”.

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