«Il Canada non è in vendita», ha detto il primo ministro del Canada, Mark Carney, accanto a Donald Trump nello Studio Ovale, anticipando con il solito formato trumpiano a briglia sciolta una «conversazione molto amichevole» che il presidente ha voluto mettere a contrasto, in modo chiaro ma senza nominarla esplicitamente, con quella assai più ostile con Volodymyr Zelensky.

Carney, da poco confermato alla guida del paese dopo una esaltante campagna anti trumpiana, nella prima visita alla Casa Bianca non ha commesso l’errore tattico di mettersi di traverso rispetto al padrone di casa, ma con qualche garbato e deciso intervento ha interrotto il sermonistico monologo dell’artista del deal – che ha anche “preannunciato”, parlando di una resa, l’accordo di una tregua tra gli Houthi e gli Usa, poi confermato dall’Oman – puntualizzando alcune cose non secondarie.

Ad esempio, che «i canadesi non cambieranno idea sull’ipotesi di diventare il 51° stato Usa», faccenda su cui Trump qualche minuto prima aveva fatto il classico sproloquio sul confine artificiale da abolire e gli immensi vantaggi che il Canada otterrebbe.

«Ma per ballare bisogna essere in due», ha detto il presidente, che ha smentito poi l’ipotesi di togliere i dazi imposti al Canada, annunciando nuovi dialoghi per trovare accordi commerciali soddisfacenti. Altro che il Nafta, «l’accordo commerciale peggiore della storia». Prima di accogliere Carney alla Casa Bianca, Trump aveva scritto sul social Truth: «Desidero tanto lavorare con lui, ma non riesco a capire una semplice verità : perché l'America sovvenziona il Canada con 200 miliardi di dollari all'anno, oltre a fornirgli protezione militare gratuita e molte altre cose?».

Il caso Hegseth

Continuano a uscire brandelli di informazioni su nuove chat di Signal con contenuti sensibili, probabilmente anche secretati, organizzate dal segretario della Difesa, Pete Hegseth.

L’ultimo atto della saga della gestione irresponsabile di materiale rilevante per la sicurezza nazionale lo ha scritto il Wall Street Journal, che attraverso fonti del Pentagono ha dato conto di altre istanze in cui Hegseth ha fatto transitare sul suo telefono personale, attraverso una app di messaggistica commerciale, piani militari, coinvolgendo in alcuni casi interlocutori che non hanno il permesso di maneggiare dati di questo tipo.

In almeno un caso, riferisce il quotidiano, ha usato il servizio, che non rispetta i protocolli di sicurezza del governo, per «informare governi stranieri su operazioni militari imminenti». A volte Hegseth creava e gestiva personalmente le chat, ma in altri casi affidava il compito a un suo assistente militare, Ricky Buria, funzionario in ascesa e molto discusso nei corridoi del Pentagono perché dopo aver servito fedelmente in uniforme durante l’amministrazione Biden ha deciso di congedarsi dal ruolo militare attivo per accettare una posizione politica accanto a Hegseth. In questi mesi si è avvicinato molto al segretario e alla moglie, anche lei coinvolta in diverse chat sensibili.

Il mese scorso l’ispettore generale del Pentagono, il generale Steven Stebbins, ha detto che è stata aperta un’indagine interna sull’uso di Signal per lo scambio di informazioni militari. L’inchiesta è stata lanciata dopo il famoso caso della chat in cui i vertici della sicurezza nazionale hanno involontariamente invitato un giornalista e si sono messi a discutere i dettagli di un attacco agli Houthi. Ma per quanto riguarda Hegseth, sono emerse altre circostanze in cui il segretario ha usato impropriamente Signal.

La notizia è che tutto questo pullulare di segnalazioni non ha avuto finora alcun effetto sulla posizione di Hegseth, che continua a essere difeso dal Donald Trump. Si tratta di una prova indiretta che Mike Waltz, consigliere per la sicurezza nazionale uscente, non ha perso il posto a causa del clamoroso errore commesso sulla famosa chat, ma perché non godeva di protezioni sufficienti per sopravvivere in quel groviglio di tribalismi e vendette che governa le dinamiche della Casa Bianca. Waltz si è trovato anche sotto il fuoco di Laura Loomer, inquietante vestale del mondo Maga che passa le sue giornate a segnalare a Trump gli alleati infedeli di cui si circonda. Lei considera Hegseth «un amico personale», e questo è il segnale che il segretario può stare tranquillo, anche a dispetto delle nuove chat che emergono. Almeno per il momento.

Lo scontro con Harvard

Il confronto tra l’amministrazione Trump e Harvard si intensifica. Il dipartimento dell’Educazione ha annunciato il congelamento di oltre 2,2 miliardi di dollari in finanziamenti federali destinati all’università, accusata di non rispettare alcune condizioni imposte dal governo su antisemitismo e politiche di ammissione ritenute discriminatorie.

Secondo l’amministrazione, Harvard avrebbe fallito nel garantire un ambiente accademico inclusivo, tollerando e incoraggiando proteste pro-palestinesi considerate ostili agli studenti ebrei e mantenendo sistemi di selezione che tengono conto dell’etnica. «L’università ha mancato ai suoi obblighi legali, etici e fiduciari», ha detto la segretaria dell’Educazione, Linda McMahon.

Il presidente di Harvard, Alan Garber, ha definito l’azione del governo «una minaccia diretta all’autonomia accademica», annunciando un’azione legale per contestare quella che Harvard considera una violazione del primo emendamento alla Costituzione.

Non è uno scontro isolato: altre università, tra cui Columbia e Princeton, sono finite nel mirino dell’amministrazione per motivazioni simili. Ma il caso di Harvard rappresenta il fulcro del conflitto sempre più acceso tra il mondo accademico e la Casa Bianca.

L’esito dello scontro potrebbe ridefinire il rapporto tra università e governo federale, con implicazioni profonde sulla libertà accademica e sulla gestione dei fondi pubblici per la ricerca.

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