C’è un angolo di mondo che meriterebbe una grande attenzione internazionale, e che nell’oblio pressoché totale sta sprofondando in una crisi umanitaria dalle dimensioni bibliche. Il Corno d’Africa è ormai da mesi sotto lo spettro della carestia che, aggravata dal mancato rifornimento di materie prime per la guerra in Ucraina, sta mietendo vittime a ritmi forsennati e minaccia milioni di individui dalla Somalia al Sud Sudan passando per Gibuti, Etiopia, Eritrea e lambendo il Kenya.

Ma ciò che, da ormai due anni, rende il quadro drammaticamente insopportabile, è una spietata guerra che si combatte nel Tigray, da tempo tracimata ben oltre i confini regionali.

La ripresa della guerra in Tigray

Il 24 agosto scorso è naufragata la fragile tregua raggiunta in primavera, dopo appena cinque mesi. In tutta l’area sono ripresi i combattimenti tra il Tplf (Fronte popolare di liberazione del Tigray) e i membri dell’esercito etiope e, da quel giorno, tutto il paese è ripiombato nell’incubo del conflitto.

Neanche 24 ore dopo, il Tplf ha dichiarato di condurre «un’offensiva su larga scala» a cui fonti ufficiali da Addis Abeba hanno risposto rimpallando le responsabilità: «Sono stati i ribelli a rompere la tregua attaccando le nostre unità sul fronte orientale».

Da allora giungono quotidianamente notizie di scontri e in un mese le incursioni di aerei e relativi bombardamenti sulla popolazione civile da parte dell’esercito regolare hanno fatto numerose vittime, più di sette solo sulla capitale del Tigray Mekelle.

Il conflitto, cominciato nel novembre 2020 al culmine della diffusione mondiale della pandemia e sulla scorta di un referendum per l’indipendenza celebrato in Tigray senza mai aver ricevuto l’avallo di Addis Abeba, era stato inizialmente sottovalutato per vari motivi, primo fra tutti la fama di statista illuminato che il primo ministro Abiy si era guadagnato grazie alle riforme innescate e alla conquista del premio Nobel per la pace nel 2019.

Passati pochi mesi, in realtà, è stato chiaro al mondo che il premier etiope non sarebbe arretrato di un centimetro e avrebbe utilizzato ogni mezzo a sua disposizione per avere la ragione dei ribelli, mentre, sul campo opposto, il Tplf mostrava grandi capacità belliche arrivando a lambire la capitale Addis Abeba sul finire del 2021. Il risultato è fin qui catastrofico.

In due anni un bilancio drammatico

Secondo fonti accreditate, le vittime, tra scontri e fame (che la stessa guerra avrebbe esacerbato, tagliando le linee di approvvigionamento o di aiuti), avrebbero abbondantemente superato il mezzo milione. Si calcola inoltre che più di 5,6 milioni di tigrini siano alla fame e che altri due milioni (in tutto la popolazione è di 8 milioni, ndr) siano sfollati.

Numerose sono le violenze a cui è sottoposta la popolazione civile, così come gli arresti sommari, i rapimenti e gli stupri. Il rapporto della Commissione internazionale di esperti sui diritti umani in Etiopia (Ichree) pubblicato il 19 settembre scorso e presentato al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni unite il 22, evidenzia un numero enorme di violazioni dei diritti umani perpetrate da tutte le parti e parla di «crimini contro l’umanità». A questo, sempre secondo il rapporto, va ad aggiungersi il continuo «blocco strategico degli aiuti che rende la situazione del Tigray disperata».

In relazione alle violenze sessuali, il documento aggiunge che «stupri e crimini di violenza sessuale si sono verificati su una scala sconcertante [...] con le forze etiopi ed eritree (le truppe di Asmara sono pesantemente coinvolte nel conflitto a fianco dell’ex nemico Abiy, ndr) e le milizie regionali che hanno preso di mira le donne e le ragazze del Tigray con particolare violenza e brutalità».

Nel frattempo, come riporta Africanews, malattie mortali come morbillo, tetano e pertosse sono in aumento nella regione del Tigray a causa del crollo dei tassi di vaccinazione durante la guerra: secondo i dati del Tigray Health Bureau, quest’anno la percentuale di bambini nel Tigray che ricevono i vaccini di routine è scesa al di sotto del 10 per cento. In tutto, sono 20 milioni gli individui che necessitano urgentemente di aiuti umanitari.

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Uno spiraglio di pace

Dal mare di pessime notizie, emerge una flebile speranza. L’11 settembre scorso il governo del Tigray ha espresso la propria disponibilità a riprendere i negoziati mediati dall’Unione Africana. Al momento non ci sono stati segnali da parte del governo etiope ma si spera che, prima che la situazione precipiti nell’abisso definitivo, la comunità internazionale intervenga decisamente.

L’Unione Africana, fin qui non sempre nitida nelle sue posizioni, dovrà giocare un ruolo molto più incisivo. Le parti dovranno trovare accordi fondamentali per il ripristino di condizioni di vita minimali a partire dall’accesso senza ostacoli agli aiuti umanitari e l’immediata ripresa dei trasporti civili, dell’elettricità, delle forniture di carburante e di altri elementi urgenti per la sopravvivenza di milioni di persone nel Tigray. Un segnale enorme sarebbe il rilascio dei prigionieri di guerra e politici da ambo le parti, ma questa evenienza sembra al momento troppo avanzata.

Nel frattempo Europa, Stati Uniti e mondo occidentale dovrebbero profondere molti più sforzi sia in termini economici che politici e occuparsi di un conflitto che sta causando una delle peggiori emergenze umanitarie al mondo, provando a incidere seriamente così come sta succedendo in Ucraina.

In fondo, come sostiene giustamente Mehari Taddele Maru, un accademico esperto di pace e sicurezza, dalle pagine di Al Jazeera, «solo una minima parte di quanto il mondo occidentale ha speso finora per sostenere la resistenza dell’Ucraina contro l’invasione della Russia avrebbe potuto fermare la guerra nel Corno d’Africa, ponendo fine alle sofferenze di centinaia di milioni di persone».

ELISABETTA II, UN SIMBOLO CONTRADDITTORIO IN AFRICA

Hanno destato un certo scalpore le immagini di capi di Stato e leader politici africani giunti in Inghilterra per prendere parte alle esequie della regina, tra i quali, solo per citarne alcuni, il neo presidente del Kenya William Ruto e la presidente della Tanzania Samia Suluhu, trasportati verso l’Abbazia di Westminster a Londra, a bordo di un semplice pullman come fossero un gruppo di alunni in gita scolastica.

Stipati nel bus, sorridono di maniera mentre osservano sfrecciare accanto le limousine presidenziali riservate ai rappresentanti delle nazioni europee o nord americane. È forse l’ultimo episodio che fotografa le difficili relazioni tra la corona e le nazioni africane, così caratterizzate da colonialismo, violenza, sopraffazione, e che fa emergere le reazioni scaturite nel continente e nel mondo all’annuncio della morte di Elisabetta II.

È vero infatti che, anche in Africa, molti le riconoscono un ruolo di appeasement all’interno del regno da lei presieduto così lungamente. Ma allo stesso tempo sono stati in tanti a cogliere l’occasione della sua morte per ricordare una storia di brutalità compiuta dai britannici negli anni in cui sedeva sul soglio regale. Una storia che difficilmente si può cancellare con le cerimonie.

(AP Photo/File)

«Se la regina si fosse scusata per la schiavitù, il colonialismo e il neocolonialismo e avesse esortato la corona a offrire un risarcimento per i milioni di vite umane spezzate in suo nome», ha scritto l’accademico Mukoma Wa Ngugi, «forse avrei fatto la cosa più umana e mi sarei sentito turbato per la sua morte. Come keniano, non provo nulla. Questo teatro è assurdo».

«Se qualcuno si aspetta che io esprima qualcosa di diverso dal disprezzo per la monarca che ha supervisionato un governo genocidiario che ha massacrato e sfollato metà della mia famiglia», rincara la dose la  professoressa Uju Anya della Carnegie Mellon University, «resterà illuso».

Di certo, come molti loro concittadini, i due accademici non dimenticano che proprio nell’anno in cui Elisabetta è stata proclamata regina, il 1952, le autorità coloniali britanniche hanno dato inizio in Kenya a una durissima repressione contro i ribelli anti regime coloniale noti come Mau Mau, e che le truppe di occupazione avevano dato vita a un vasto sistema di campi di detenzione dove tortura, stupro, castrazione erano all’ordine del giorno e furono uccise decine di migliaia di persone.

Il presidente del Ghana Nana Akufo-Addo era sì presente alle cerimonie di sepoltura della sovrana, ma poco prima della sua morte aveva esortato le nazioni europee a risarcire l’Africa per la tratta degli schiavi che ha soffocato il «progresso economico, culturale e psicologico» e, ovviamente, faceva soprattutto riferimento al potere colonizzatore del suo paese.

Alcuni degli osservatori intervenuti in difesa della regina sostengono che le decisioni nel lunghissimo sessantennio di regno non le prendesse lei ma i rappresentanti dei governi succedutisi sotto di lei, e che la monarca non può essere ritenuta responsabile delle atrocità commesse dagli inglesi nel mondo. All’opposto, invece, le si rimprovera l’aver mascherato con il suo volto gentile e le sue parole apparentemente improntate alla tolleranza e al dialogo una potenza che ha continuato per decenni, sotto la sua reggenza, a spargere sangue a ogni latitudine. 

«Avete mandato in loop uno spezzone del discorso di Elisabetta a Città del Capo nel 1947 quando era ancora principessa quale esempio di universalismo», ha detto Richard Stengel, sottosegretario di Stato con Barack Obama, nel corso di una trasmissione televisiva. «Peccato che proprio in quell’anno sia entrato in vigore l’apartheid. Il colonialismo britannico, da lei presieduto, ha avuto un effetto terribile su gran parte del mondo».

ITALIAHELLO, UNO STRUMENTO DI SOSTEGNO PER LE DIASPORE IN ITALIA

In un’Europa e un’Italia sempre meno accoglienti verso chi cerca rifugio, le sfide che le comunità migranti, i richiedenti asilo, i profughi e le persone con background migratorio devono affrontare quotidianamente diventano sempre più complesse e dure da vincere. Oltre ai traumi legati al viaggio, sono da affrontare le barriere linguistiche, l’assenza di spazi di espressione e le difficoltà di accesso ai servizi nazionali.

Negli anni sono nate realtà di sostegno e di difesa dei diritti dei migranti giunti nel nostro paese, che su vari fronti provano a favorire un’integrazione reale e a rispondere al senso di emarginazione ed estraneazione che facilmente assale i singoli e, talvolta le comunità migranti. Tra queste, ItaliaHello, nata nel 2018 dalla Fondazione americana USAHello.

ItaliaHello è una piattaforma online gratuita, nel 2021 visitata da 104mila persone e da circa 130mila da gennaio a oggi, che diffonde informazioni, tutorial e risorse online di alta qualità tradotte da mediatori culturali. Gli argomenti vanno dalle leggi nazionali al sistema scolastico e universitario italiano, al mondo del lavoro, della salute e della burocrazia nel nostro paese. Dall’esperienza di ItaliaHello è nato di recente Job Clinic Online, uno strumento per facilitare i migranti e le aziende nella fase di ricerca di lavoro e di personale.

NEWS DAL CONTINENTE:

  • In Guinea equatoriale:

Con un intervento alla televisione pubblica il presidente della Guinea equatoriale, Teodoro Obiang Nguema Mbamasogo, ha annunciato l’abrogazione della pena di morte nel suo paese. Un evento definito storico che aggiunge il piccolo paese dell’Africa centro occidentale al novero delle nazioni del continente – come Sierra Leone, Ciad e Malawi – che hanno abolito la pena capitale negli ultimi due anni. La strada resta comunque lunga visto che dei 55 stati, ancora oltre 30 mantengono la pena di morte.

  • In Kenya/Russia:          

Il presidente keniano di freschissima nomina William Ruto ha espresso la volontà di acquistare carburante dalla Russia e di eludere il trend internazionale di rifiuto di affari commerciali con il paese invasore dell’Ucraina. In un’intervista rilasciata alla Bbc, Ruto ha espresso la sua preoccupazione per l’aumento del prezzo del carburante che ha messo a dura prova i keniani e la sua ferma volontà a cercare ogni tipo di soluzione per cercare di contenerlo. La mossa rende sempre più alto il numero di stati africani che, per esigenze economiche, politiche o militari, non si allineano alla strategia internazionale di isolamento di Mosca.

  • In Sud Sudan:

Un’inchiesta di The New Humanitarian e Al Jazeera ha rivelato anni di accuse di abusi diffusi contro gli operatori umanitari del campo gestito dalle Nazioni unite a Malakal, in Sud Sudan. Le accuse puntano il dito contro gli operatori umanitari locali dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), di Medici senza frontiere (Msf), del Programma alimentare mondiale (Pam) e di World Vision. L’indagine, pubblicata il 22 settembre, ha rilevato che, sebbene i funzionari fossero ben consapevoli delle accuse di abusi nel campo di protezione dei civili gestito dalle Nazioni unite a Malakal già nel 2015, questi sono continuati. Il segretario generale delle Nazioni unite António Guterres ha chiesto un «rapporto urgente» sulle azioni che i funzionari delle Nazioni unite in Sud Sudan stanno intraprendendo per «garantire affidabilità».

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