Dieci anni fa la strage nella redazione di Charlie Hebdo, quattro anni fa l’assalto a Capitol Hill. Due date che si accavallano e si inseguono, raccontando come nel frattempo siano scomparse le leadership che marciarono insieme in una irripetibile risposta unitaria
Sette gennaio 2015, la strage nella redazione di Charlie Hebdo, a Parigi, erano le 11.30 quando i terroristi islamici fecero irruzione nella sede del giornale satirico, uccidendo dodici persone, tra giornalisti, vignettisti, agenti. Sei gennaio 2021, l’assalto a Capitol Hill, erano quasi le 13 a Washington quando la folla cominciò ad avanzare verso il Campidoglio. Due date, affiancate per combinazione dal calendario: il buio a mezzogiorno della nostra epoca.
Non è una commemorazione rituale. Dieci anni dopo la strage di giornalisti nel cuore della capitale francese, il terrorismo ha ripreso a minacciare e a insanguinare l’Europa e gli Stati Uniti. Dopo la macelleria di Charlie Hebdo arrivò la notte del 13 novembre 2015, con la strage del teatro Bataclan e la morte per le strade di Parigi, con 130 vittime, e poi Bruxelles, Nizza, Londra, Manchester, Barcellona, Berlino, Strasburgo, chi ricorda le vittime italiane di questa guerra: Valeria Solesin, Fabrizia Di Lorenzo, Antonio Megalizzi?
L’attacco all’Europa, mosso da un nemico esterno, ha cambiato la mentalità, i comportamenti, e infine i sistemi politici e istituzionali. Dieci anni fa, l’11 gennaio 2015, il mondo sfilò a Parigi, due milioni in piazza, cinquanta capi di Stato, Netanyahu e Abu Mazen insieme, il presidente ucraino Poroshenko e il ministro degli Esteri russo Lavrov.
A riguardare la prima fila, Hollande, Merkel, il presidente del Consiglio italiano Renzi, che quel giorno compiva quarant’anni, si ha la misura del tempo passato. Non solo sono scomparse quelle leadership, ma è impensabile quella risposta unitaria, nell’epoca delle divisioni, del risorgere delle guerre nazionaliste. La paura, il terrore, hanno radicalizzato le risposte, diventando benzina sul fuoco per i partiti sovranisti che da lì in poi sono decollati nei consensi e non sono scesi più, in tutti i paesi europei.
Oggi in Germania i sondaggi danno Afd intorno al 20, in Francia oltre la metà degli elettori vorrebbe le dimissioni del presidente Macron, in Gran Bretagna il partito di Nigel Farage supera il Labour del premier Starmer dopo appena sei mesi di governo, con la benedizione di Musk. In dieci anni hanno conquistato la scena formazioni che prosperano nell’insicurezza, l’opposto di quell’Europa che si teneva per mano.
L’onda di capitol hill
Il sei gennaio 2021 l’attacco a Capitol Hill arrivò da un nemico interno. Non furono terroristi islamici a devastare il tempio sacro della democrazia, ma una fazione che diceva di agire in nome dell’intero popolo, fondamento della democrazia americana, che si rivoltava contro le istituzioni.
Nessuno avrebbe scommesso un penny, quel giorno di sangue, che quattro anni dopo Donald Trump sarebbe stato in procinto di giurare per la seconda volta da presidente degli Stati Uniti. Tra i pochissimi a immaginarlo c’era proprio il vincitore di quelle ore, il presidente eletto Joe Biden. Pochi giorni dopo, nel discorso di insediamento alla Casa Bianca, parlò di fragilità della democrazia: «La democrazia è preziosa, la democrazia è fragile, la democrazia ha vinto». Ma non per sempre: «la battaglia è perenne e la vittoria non è mai certa».
Era la «collina da scalare», di cui parlò nella cerimonia di quattro anni fa Amanda Gorman. Ma per i nemici della democrazia la fragilità non è un presupposto di forza («quando sono debole, allora sono forte», scrive l’apostolo Paolo ai Corinzi), è un male da estirpare, è l’alibi di un sistema che presentano come imbelle, inefficace, logoro, corrotto.
Si alimentano la sfiducia, la disgregazione, la solitudine, l’assenza di futuro che trasforma l’altro in un pericolo, premiando chi polarizza le distanze. Con le conseguenze che abbiamo conosciuto in questi anni, anche in Italia: il non voto, l’alleanza tra sovranismo, neocapitalismo finanziario (di cui ha scritto su “Domani” Gianni Cuperlo) e i Signori dei social media che si atteggiano a capi di Stato senza territorio e senza confini, pronti a promuovere o buttare giù governi e leadership di altri paesi.
Un autoritarismo tecnologico, l’ha definito Romano Prodi: un mix di autoritarismo conservatore e di progressismo visionario, che promette la protezione contro l’esterno (il migrante confuso in blocco con il terrorista islamico), e la mobilitazione dell’interno contro chi non si allinea, considerato un disfattista, un ostacolo alle azioni del capo di turno, da rimuovere.
Così la democrazia viene corrosa nel profondo, lasciando le regole formalmente intatte ma svuotandole di senso. È l’onda di Capitol Hill che arriva fino all’Europa e all’Italia, ma è anche la chiave di una possibile alternativa: ricucitura, connessione, riparazione di ciò che è spezzato e diviso. Trasformare la debolezza in forza.
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