C’è stato molto entusiasmo in questi giorni in Italia per la vittoria di Gabriel Boric alle elezioni presidenziali in Cile. In realtà, bisogna dire che non si tratta di un “modello” facile da importare: la politica cilena non è quella italiana e i paragoni, che pure sono stati fatti, non reggono da nessun punto di vista.

I motivi sono tanti. Ne richiamiamo un paio. In primo luogo, perché in Cile esistono partiti politici e formazioni di vario tipo che potremmo definire di sinistra “radicale” che godono di un certo seguito; una sinistra che in Italia è praticamente scomparsa da tempo. In secondo luogo, perché nel nostro paese il ricambio generazionale in politica si è dimostrato un processo lento e a dir poco faticoso. Infine, perché questa vittoria delle sinistre in Cile si inserisce prepotentemente in un percorso di mobilitazioni sociali ampio e di lunga durata, come si è detto, che ha avuto a che vedere con le eredità di quella dittatura terrorista che si affermò nel 1973.

Chi è

La vittoria di Gabriel Boric in Cile (AP)

Dal marzo dell’anno prossimo, a 36 anni, Boric sarà il presidente più giovane e più votato della storia del paese latinoamericano, nonché quello “più a sinistra” dai tempi di Salvador Allende. Boric sarà il primo capo di Stato non espresso da una delle due coalizioni – quella di centro-sinistra e quella di centro-destra – che hanno governato ininterrottamente il paese dal 1990 a oggi.

Il giovane leader si è candidato in nome di quella parte dell’elettorato cileno posizionato maggiormente a sinistra e radicalizzato, che almeno in questo primo scorcio di Ventunesimo secolo non si è sentito rappresentato da nessun partito (ad eccezione di quello comunista, presente nel congresso però solo dal 2009); elettorato che ha ingrossato le fila di quei movimenti sociali che sono stati una spina nel fianco degli ultimi quattro esecutivi, i due di Michelle Bachelet e quelli di Sebastián Piñera.

Questi movimenti di base, peraltro, pur confondendosi nella eterogenea onda d’urto iniziata con le proteste sociali dell’ottobre del 2019, sono figurati tra i principali promotori dell’assemblea costituente che sta attualmente redigendo una nuova carta costituzionale in sostituzione di quella imposta dal dittatore Augusto Pinochet.

Speranza e allegria

Sostenitori di Gabriel Boric, in una foto del 19 dicembre (AP Photo/Luis Hidalgo)

Tutto questo, già da solo, sarebbe sufficiente per chiarire la portata storica e la discontinuità che si è prodotta nelle recenti elezioni rispetto agli ultimi trent’anni di vita politica cilena. Nel commentare il voto di domenica, numerosi analisti lo hanno paragonato al plebiscito del 5 ottobre del 1988, ovvero quello che aprì la strada al ritorno della democrazia in Cile.

Tale collegamento è stato, peraltro, suggerito dallo stesso neo presidente che ha molto insistito sul messaggio che «la speranza avrebbe sconfitto la paura», richiamandosi nemmeno tanto velatamente al famoso jingle “Cile, l’allegria sta arrivando”, con cui i promotori del “No” a Pinochet sconfissero la dittatura.

Appello alle emozioni

Il logo dei supporter del no al referendum del 1988

A quel tempo, infatti, questi ultimi, per vincere la paura della gente, scelsero un messaggio privo o quasi di contenuto politico, evitando di chiamare in causa il regime civico-militare, ma facendo appello alle emozioni della gente.

Cosa che ha effettivamente fatto anche il candidato della sinistra in questa campagna elettorale. Al candidato di estrema destra José Antonio Kast che ha invitato gli elettori a scegliere tra “libertà e comunismo”, tra “democrazia e autoritarismo”, fra “legalità e terrorismo”, Boric ha risposto con un messaggio rassicurante, facendo leva sulla fiducia in un futuro democratico e su di un programma dichiaratamente progressista.

Un’altra analogia è stata rinvenuta nelle percentuali elettorali, che risultano essere praticamente identiche a quelle di 33 anni fa. Se nel 1988 il No vinse con il 54,7 per cento dei voti, a fronte del 43 per cento di chi era a favore della continuità alla guida del paese per altri otto anni di Augusto Pinochet, Boric si è imposto con il 55,87 per cento dei voti, mentre Kast si è fermato al 44,13 per cento. Forte, peraltro, di una partecipazione elettorale che risulta essere, con 8 milioni e 314mila elettori, la più alta nella storia del paese.

Ricordando Allende

(AP Photo/Matias Delacroix)

A urne appena chiuse Boric ha concluso il suo primo discorso parafrasando le parole pronunciate da Salvador Allende dopo la sua vittoria nel 1970: «Tornate a casa con la sana allegria della limpida vittoria ottenuta».

Il richiamo al presidente socialista non deve sorprendere. Allende e, più in generale, gli anni di Unidad Popular sono stati spesso evocati durante le proteste sociali che hanno scandito l’ultimo quindicennio in Cile, a cominciare da quella studentesca del 2006.

Occorre, infatti, ricordare che il Cile attuale è un paese profondamente disuguale, e molto di questo ha a che vedere con il modello economico (ultraliberista) ereditato dalla dittatura civico-militare, che ha rappresentato uno dei principali retaggi autoritari mai superati in democrazia, insieme alla Costituzione del 1980.

Nel denunciare le storture socio-economiche, i manifestanti non hanno, quindi, mai risparmiato i governi di centro-sinistra post-autoritari, che, a conti fatti, hanno dimostrato di condividere quel modello. Ed è anche quello che ha fatto Boric nella campagna elettorale del primo turno, al fine di compattare e garantirsi il voto di tutto l’elettorato del variegato mondo della sinistra cilena.

Un’ascesa dirompente

Gabriel Boric si fa un selfie (AP Photo/Andres Poblete)

Appena un anno fa, infatti, nessuno immaginava che sarebbe stato candidato presidenziale. Boric ha dovuto prima farsi nominare dal suo partito (Convergencia social), poi ottenere l’appoggio di tutta la sua coalizione Frente Amplio, infine sconfiggere, nelle primarie, il candidato del partito comunista, Daniel Jadue, che tutti i sondaggi davano per vincitore, ed essere quindi nominato dalla coalizione Apruebo Dignidad.

Quella di Boric è stata un’ascesa tanto rapida quanto dirompente, avvenuta grazie a una precoce maturità politica, a una grande intelligenza politica e una non comune capacità di sapersi velocemente adattare alle contingenze. A conferma di ciò, è sufficiente fare due esempi.

Per ampliare il consenso ottenuto al primo turno, Boric ha affidato la campagna elettorale del secondo turno a Izkia Siches, la quale, da presidente del Colegio médico de Chile, durante la fase più critica della pandemia ha spronato l’esecutivo e i partiti politici all’adozione di protocolli con i quali contenere il virus, guadagnandosi in tal modo una enorme popolarità. Popolarità che le ha consentito di girare in lungo e in largo per il paese e ottenere voti in distretti elettorali dove al primo turno a vincere era stato Kast.

L’incontro fra generazioni

Supporter di Gabriel Boric (AP Photo/Matias Delacroix)

In secondo luogo, per guadagnare il sostegno dei settori più moderati dell’elettorato di centrosinistra, in occasione del secondo turno, Boric ha riposto l’abito del politico radicale per vestire quello di un novello socialdemocratico.

Gli incontri con gli ex presidenti Ricardo Lagos e Bachelet e con la democristiana Carmen Frei, l’ammissione dei successi dei governi di centrosinistra, le scuse per una certa “arroganza generazionale”, sono state tutte manifestazioni di una inversione di tendenza tesa a una sorta di pacificazione tra due diverse generazioni: quella dei padri, che prese il posto, a partire del 1990, della dittatura, e quella attuale.

Quest’ultima, del resto, ovvero la “generazione” del movimento studentesco del 2011 e della coalizione del Frente Amplio, è riuscita a diventare un attore politico di primissimo piano e, soprattutto, a prendere il potere nel breve volgere di appena un decennio. Anche questo aspetto deve essere considerato eccezionale nel panorama politico cileno e, più in generale, latinoamericano.

Boric non è Allende, e la sua coalizione non è Unidad Popular. Alla sua elezione non seguirà una polarizzazione della società come quella che si produsse fra il 1970 e il 1973, né una nuova “via cilena al socialismo”. Tuttavia, il paese ha indubbiamente impedito il ritorno dei pinochettisti del XXI secolo al governo, ipotesi, questa, che era tutt’altro marginale in una fase in cui tenebrose nubi incombono un po’ ovunque, non solo in Cile. E, soprattutto, si trova dinanzi a un’opportunità storica: chiudere definitivamente i conti con gli anni della dittatura, una sfida tutt’altro che semplice da vincere.

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