Dalle “due sessioni” (liănghùi) annuali della Conferenza politica consultiva del popolo cinese (Cpcpc) e dell’Assemblea nazionale del popolo (Anp), che si aprono a Pechino rispettivamente lunedì 4 e martedì 5 marzo, l’occidente spera di ottenere indicazioni chiare sulla direzione della Cina post-Covid.

Nella Grande sala del popolo è stato approntato un programma rassicurante e riccamente coreografato, come da tradizione di questi due consessi (la Cpcpc, emanazione del maoista Fronte unito, istituita per consultare altri settori della società non inquadrati nel Partito comunista né nell’esercito; l’Anp, ufficialmente la massima autorità dello stato), in occasione dei quali in piazza Tiananmen convergono da ogni parte del paese oltre cinquemila delegati. Assenti nei vertici del partito, le donne e le minoranze etniche sono iper-rappresentate nelle liănghùi.

Finzione

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La finzione - nei prossimi giorni in cui saranno approvati i budget ministeriali e discussi i provvedimenti del governo - avrà a tratti il sopravvento sulla realtà, con profluvio di retorica pro-business nel tentativo di attirare gli investimenti stranieri, scesi l’anno scorso a 33 miliardi di dollari, il livello più basso dal 1993.

Le aziende straniere che per decenni hanno costruito in Cina la loro fortuna continuano a presentare le loro lagnanze. Suzanne Clark – la direttrice della Camera di commercio Usa – la settimana scorsa ha incontrato a Pechino il premier, Li Qiang, al quale ha ricordato «le preoccupazioni delle compagnie statunitensi riguardo all’uso da parte della Cina di pesanti tattiche di pressione commerciale, protezionismo digitale e furto di proprietà intellettuale».

«Le imprese europee attendono con impazienza una tempistica che dettagli la piena attuazione delle rimanenti misure elencate nel pacchetto», ha affermato Jens Eskelund. Il riferimento del presidente della Camera di commercio UE in Cina è al piano in 24 punti varato dall’esecutivo l’estate scorsa per dare più spazio agli stranieri, soprattutto nella ricerca scientifica. Maximilian Butek, direttore esecutivo della Camera di commercio tedesca in Cina, è stato più esplicito, invocando «non solo fumo negli occhi, ma misure per ridare fiducia ai consumatori e al settore privato».

Tutto il potere al partito-stato

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L’ultima riunione dell’ufficio politico del Pcc che ha preceduto le “due sessioni” ha promesso politiche «stabili, trasparenti e prevedibili», dunque niente più svolte improvvise, come i giri di vite che negli ultimi anni hanno colpito i colossi nazionali di internet e l’immobiliare.

Nel suo “rapporto sul lavoro del governo” con cui martedì aprirà l’Anp, il premier Li dovrebbe annunciare, anche per il 2024, l’obiettivo di un tasso di crescita del Pil intorno al 5 per cento. Secondo quanto deciso dai leader del partito, ci si arriverà anche grazie e una «politica fiscale proattiva (già nel 2024 il rapporto deficit/Pil è stato portato al 3,8 per cento, ndr), che dovrà essere moderatamente rafforzata e migliorata in termini di qualità ed efficienza, mentre la politica monetaria prudente dovrebbe essere flessibile, moderata, precisa ed efficace».

Ma è improbabile che dal dibattito delle “due sessioni” e dal prossimo terzo plenum del XX comitato centrale arrivino le aperture auspicate dall’occidente. Il quadro interno e quello internazionale spingono in direzione opposta.

L’economia cinese è alle prese con una difficile transizione che prevede la sostituzione del vecchio motore di crescita (gli iper-investimenti e l’export) con uno nuovo, la domanda interna. La parola d’ordine è “innovazione autoctona”, per fabbricare prodotti cinesi ad alto valore aggiunto, come le auto elettriche, destinate ai consumatori cinesi (oltre che ai mercati internazionali).

Per le compagnie straniere – soprattutto le pmi – c’è meno spazio che in passato. Nel 2023 la loro produzione è cresciuta dell’1,4 per cento, contro il 5 per cento di quella delle aziende di stato cinesi. Né il governo ha intenzione di aprire in maniera significativa gli appalti pubblici o settori strategici come le telecomunicazioni e la finanza.

Anche gli Usa si blindano

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D’altra parte è in un mondo meno aperto che la Cina sta diventando un paese meno aperto. È stato l’uno-due pandemia-nuova Guerra fredda a spingerla a guardare di più all’interno dei suoi confini e a fare sempre maggiore affidamento sul suo massiccio settore statale e sulla burocrazia controllata dal partito comunista.

Venerdì scorso l’amministrazione Biden ha pubblicato un documento con il quale si è impegnata a raddoppiare gli sforzi per il “riallineamento” degli scambi con la Cina, nei confronti della quale il deficit commerciale degli Stati Uniti (279,4 miliardi di dollari) nel 2023 è diminuito di 102,9 miliardi, grazie a un calo delle importazioni di “made in China” di oltre 109 miliardi. Pubblicati dall’ufficio della ministra del commercio, Katherine Tai, l’Agenda di politica commerciale 2024 e il Rapporto annuale 2023 presentato al Congresso promettono un’azione continua contro quelli che vengono definiti “abusi commerciali ed economici” della Cina e i “danni da essi causati”.

«Stiamo anche considerando tutti gli strumenti esistenti e ne cercheremo di nuovi se necessario», afferma il documento, secondo il quale le azioni finora intraprese dall’amministrazione democratica hanno consentito agli Stati Uniti di “impegnarsi e competere” con Pechino “da una posizione di forza”.

Washington – che ha recentemente riscoperto l’importanza della politica industriale e dei sussidi statali per sostenere i settori strategici, a cominciare dai semiconduttori – accusa Pechino di utilizzare come leva un’economia non di mercato, per conquistare intere catene di approvvigionamento grazie a massicci sussidi statali.

Mentre, come a Pechino, anche a Washington la competizione economica viene collegata alla sicurezza nazionale. L’ultimo esempio è arrivato giovedì scorso, quando Biden ha ordinato un’indagine sulle potenziali minacce da parte dei veicoli elettrici fabbricati in Cina connessi a internet.

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