«Uno dei paesi più poveri al mondo caratterizzato da un bassissimo livello di sviluppo umano»: questa è la definizione che le Nazioni unite danno delle Salomone, una nazione del Pacifico del Sud composta da un gruppo di un migliaio di isole, solo 147 delle quali abitate, con una popolazione totale di circa 650mila persone. Un paese, insomma, che non dovrebbe avere nessun rilievo geopolitico particolare e che, invece, da qualche tempo sembra essere diventato uno dei molteplici epicentri del confronto tra la Repubblica popolare cinese, gli Stati Uniti e gli alleati di questi ultimi, in particolare, data la latitudine, Australia e Nuova Zelanda.

L’influenza di Pechino

Le Isole Salomone erano balzate agli onori delle cronache nel settembre del 2019, quando il governo, guidato dal Primo ministro Manasseh Sogavare – al suo quarto incarico in quel ruolo e per questo fortemente contestato dalla popolazione locale – aveva deciso di interrompere le relazioni diplomatiche con la Repubblica di Cina (Taiwan), avviate nel 1983, per gettarsi nelle accoglienti braccia di Pechino.

L’inattesa mossa non solo aveva fatto inferocire gli statunitensi e indignato i taiwanesi, ma aveva creato non pochi grattacapi all’Australia: solo due settimane più tardi, infatti, anche la Repubblica di Kiribati, un altro stato insulare dell’Oceania, aveva deciso di abbandonare Taiwan in favore della Repubblica popolare cinese, contribuendo così all’allargamento dell’influenza di Pechino nel Pacifico.

Per le Isole Salomone, l’ingresso nell’infinito novero di nazioni che hanno scelto di avviare relazioni diplomatiche formali con Pechino ha comportato, ovviamente, una serie di conseguenze. Da un lato, solo alcune settimane dopo aver preferito la Cina a Taiwan, Sogavare è stato accolto con tutti gli onori a Pechino, dove ha proceduto ad apporre la sua firma su una serie di accordi bilaterali, facendo in modo di proiettare le Isole all’interno dell’architettura della nuova via della Seta.

È ovvio che in cambio di tanta magnanimità, alle aziende cinesi sono state schiuse le porte del paese, concedendo loro il diritto di edificare una serie di infrastrutture ritenute necessarie. Tra queste figurano sette stadi e altri impianti sportivi, considerato che Sogavare ha espresso l’ambizione di ospitare, nel 2023, i Giochi del Pacifico; si tratterebbe di un modo come un altro per differire, in modo chiaramente incostituzionale, le elezioni previste proprio per l’anno prossimo. Il Primo ministro ha infatti chiarito che le Isole non hanno le risorse per ospitare i Giochi e tenere le elezioni nello stesso anno e quindi si opterà per i primi: un moderno esempio di panem (invero poco…) et circenses.

È inutile sottolineare, forse, come si sia parlato anche di un’“elargizione” in aiuti finanziari pari a circa 700 milioni di dollari, ovviamente mai confermata da Pechino.

Contestazioni anti-governative

La decisione del governo isolano di preferire Pechino a Taipei, comunque, ha portato anche a un serrato confronto interno, visto che diversi esponenti politici dell’opposizione, fedeli a Taipei – tra cui Daniel Sudaini, il governatore di Malaita, una delle province più grandi e popolose delle Salomone – oltre a essere intimoriti dalla possibilità che il paese cada preda della cosiddetta “trappola del debito”, hanno rivelato di essere stati avvicinati con offerte di denaro per ammorbidire le proprie posizioni e favorire lo switch diplomatico.

Anche alcune frange della popolazione delle Isole si sono mobilitate contro la decisione del governo centrale, ritenendo errato dare avvio a una relazione stabile con un gigante come la Cina, che potrebbe schiacciare un paese debole economicamente e istituzionalmente come le Salomone. Il tutto è sfociato in una serie di contestazioni anti-governative e rivolte violente che da Malaita si sono allargate alla capitale, contro cui è stata costretta a intervenire la polizia, facendo largo uso di gas lacrimogeni e proiettili di gomma; in quel caso l’Australia ha inviato un contingente di pace, il cui compito avrebbe dovuto essere assicurare la sicurezza della cittadinanza e ristabilire la stabilità nel paese.

È plausibile che dietro questo atteggiamento della popolazione ci sia anche un sentimento xenofobo – la nota “sinofobia” – dato che negli ultimi due decenni l’affluenza di cittadini cinesi, impegnati soprattutto in piccole attività commerciali, è stata massiccia, generando l’aperta ostilità degli indigeni.

L’accordo sulla sicurezza

Nella primavera di quest’anno la ferita si è riaperta, allorché hanno cominciato a circolare in rete delle bozze di un accordo su cui la Cina e il governo delle Isole Salomone stavano negoziando. Alla metà di aprile, effettivamente, Pechino ha confermato di aver siglato un accordo in ambito di sicurezza che, secondo le autorità australiane, neozelandesi e, ovviamente, americane, potrebbe condurre agevolmente all’aumento della presenza militare cinese nella regione e, di conseguenza, all’esacerbazione della tensione.

La rivelazione è arrivata, significativamente, un paio di giorni prima che Kurt Campbell, il coordinatore del Consiglio di sicurezza nazionale per l’Indo-Pacifico, si recasse in visita presso le Isole Salomone proprio nel tentativo di far naufragare il controverso patto.

Il senso di spiazzamento dalle parti della Casa Bianca e dei suoi alleati è stato enorme: gli statunitensi hanno invocato un migliore coordinamento con l’Australia e gli altri alleati regionali al fine di salvaguardare l’area dalla crescente minaccia di Pechino, mentre l’allora leader laburista australiano Anthony Albanese si è duramente scagliato contro il Primo ministro Morrison, definendo la lentezza con cui Canberra si è occupata della vicenda «uno dei più grandi fallimenti di questo governo».

Il Primo ministro Sogavare ha difeso l’accordo – il primo nel suo genere ratificato dalla Cina nell’Indo-Pacifico – sostenendo come esso abbia la sola finalità di aiutare le forze di polizia a risolvere le crisi interne che hanno come obiettivo i cittadini e le attività commerciali cinesi.

Completamente diversa è però l’opinione dell’opposizione delle Salomone, così come degli australiani e americani, secondo cui questo rappresenterebbe solo il primo passo di un processo che potrebbe destabilizzare la regione: il sospetto di molti, infatti, è quello secondo cui l’arrivo di un nutrito stuolo di militari cinesi e la conseguente installazione di una base militare – a meno di 2mila chilometri dalla costa orientale dell’Australia – sarebbe alle porte. Del resto, l’accordo prevede che le imbarcazioni cinesi possano attraccare nei porti delle Salomone per le operazioni di rifornimento.

L’errore di Washington

Qualche giorno fa, alla fine di agosto, la situazione si è addirittura radicalizzata, quando l’ambasciata americana a Canberra ha comunicato di aver ricevuto una notifica formale dal governo delle Isole Salomone che vieta l’ingresso ai porti del paese a tutte le imbarcazioni americane, ufficialmente in attesa di una revisione dei protocolli e delle procedure. La comunicazione è arrivata una settimana dopo che a una nave della guardia costiera americana era stato impedito di rifornirsi di carburante a Honiara ed era stata dirottata verso Papua Nuova Guinea.

Il patto tra Pechino e Honiara riflette certamente la volontà di Pechino di guardare con sempre maggiore attenzione al Pacifico del Sud, come del resto dimostrato da quando Xi Jinping è diventato presidente, visto che ben otto nazioni di quella regione figurano attualmente come “partner strategici globali” e sono diventate mete frequentate assiduamente dai principali esponenti della leadership cinese.

L’errore degli Stati Uniti e dei loro alleati è probabilmente proprio quello di indignarsi della ratifica del patto bilaterale invece di adottare una strategia precisa in grado di rilanciare la cooperazione con quella regione. Del resto, Washington decise di chiudere la propria ambasciata alle Isole Salomone ben ventinove anni fa (sebbene Blinken abbia recentemente dichiarato di volerla riaprire), spianando così la strada alla crescita dell’influenza da parte della Cina.

Solo un più attento coordinamento con i propri alleati e partner regionali, così come con gli attori privati, potrebbe ridare una qualche credibilità alle forze occidentali in questa parte del mondo. E ovviamente i soldi, molti soldi, che possano creare un’alternativa alle enormi disponibilità finanziarie di Pechino.

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