Con il ritiro delle truppe straniere e il ritorno al potere dei Talebani, gli Stati Uniti e l’occidente conteranno molto meno in Afghanistan, dove è destinata a crescere l’influenza di Cina, Russia, Turchia.

Il 28 luglio scorso, il ministro degli esteri, Wang Yi, ha incontrato a Tianjin il mullah Baradar, co-fondatore dei Talebani e papabile capo del governo che si insedierà a Kabul, dove la Repubblica popolare cinese mantiene operativa la sua ambasciata. Quella di Pechino è realpolitik: tratta con e “appoggia” gli studenti coranici, perché li ritiene l’unica forza in grado di “pacificare” il paese confinante. E, in cambio di uno sforzo per la stabilizzazione dell’Afghanistan, Pechino potrebbe chiedere a Washington qualche contropartita, come lascia intuire il colloquio telefonico di lunedì scorso tra Wang e il suo omologo Usa, Antony Blinken.

Perché è importante

  • La leadership cinese vuole contribuire a stabilizzare l’Afghanistan per due motivi fondamentali:

– impedire alle milizie jihadiste presenti in Afghanistan di attaccare in Pakistan gli impianti e le infrastrutture del Corridoio economico Cina-Pakistan, uno dei progetti più avanzati della nuova via della Seta;

– assicurare un ruolo nella ricostruzione alle aziende di stato cinesi, inserendo anche l’Afghanistan nella nuova via della Seta.

Il contesto

  • All’interno della Cina, i media governativi stanno portando avanti una campagna martellante stigmatizzando il ritiro delle truppe Usa come l’ennesimo “fallimento delle democrazie liberali” che – a differenza del socialismo cinese – esporterebbero guerre e caos. Tuttavia l’Afghanistan è, al momento, uno “stato fallito”, difficile da ricostruire. Per farsi un’idea dello stato di arretratezza della sua economia, che si regge sugli aiuti internazionali e sul traffico di oppio, può essere utile l’ultimo Afghanistan Development Update della Banca mondiale.

“Zero casi” a oltranza, o si cambia strategia?

Dalla metà del mese scorso, centinaia di casi variante Delta sono stati registrati in 48 città e 18 province della Cina. Secondo l’agenzia Xinhua, l’approccio anti-virus della Cina si è dimostrato efficace anche contro questa seconda ondata, che starebbe rientrando rapidamente. La leadership di Pechino continua a seguire la strategia “zero casi” sperimentata con la comparsa del Covid-19 a Wuhan nel Natale 2019: lockdown duri, tracciamento immediato dei contatti, quarantene, forti limitazioni agli spostamenti tra città. Ad ora, sono state somministrate poco meno di 2 miliardi di dosi di vaccino, mentre la popolazione di intere metropoli viene periodicamente sottoposta a tamponi di massa.

A medical worker takes swab sample from a resident during a round of mass COVID-19 test in Wuhan in central China's Hubei province on Aug. 5, 2021. More than 30 Chinese officials have been fired or received other punishments over accusations they failed to respond properly to the latest surge of the coronavirus in the country. (Chinatopix via AP)

Perché è importante

  • Mentre il paese resta isolato dal resto del mondo, ci si divide sulla sostenibilità dell’approccio “zero casi”. Secondo Li Ling, docente della National School of Development dell’Università di Pechino, «le nostre esportazioni hanno raggiunto livelli record, perché il mondo è ancora nella morsa del coronavirus», dunque bisogna continuare con la linea sin qui seguita. Di parere opposto Ding Xueliang, della BoYuan Foundation di Hong Kong: «I costi sono troppo elevati: le province costiere possono sostenerli, ma per quelle dell’interno è impossibile».

Il contesto

  • A luglio le esportazioni cinesi sono cresciute per il tredicesimo mese consecutivo, del 19,3 per cento rispetto allo stesso mese del 2020. Le spese per i tamponi di massa e le quarantene stanno però colpendo duramente i governi locali. Nel primo semestre 2021, soltanto Shanghai ha incassato più di quanto ha speso, mentre tutte le altre province del paese hanno registrato pesanti deficit. Senza contare il malumore dei cinesi abituati a viaggiare all’estero – per lavoro, studio e turismo – bloccati in patria dalle misure di contenimento del virus. Iniziano a farsi sentire le voci di chi sostiene che anche la Cina debba imparare a convivere col coronavirus, ma a prevalere è la volontà del Partito, che finora si è rafforzato proponendosi alla popolazione come baluardo contro l’epidemia.  

YUAN di Lorenzo Riccardi

Investire nella provincia del Jiangsu

Situata nella Cina orientale, il Jiangsu è una delle province economicamente più sviluppate della Cina. Il suo capoluogo è Nanchino, conosciuta per essere la seconda città più grande della regione. La provincia del Jiangsu copre una superficie totale di 102.600 chilometri quadrati, con una popolazione di oltre 80 milioni di abitanti. La provincia è inoltre riconosciuta per essere sede di molti gruppi internazionali attivi nella produzione di macchinari e attrezzature industriali, nell’industria elettronica, dei prodotti petrolchimici, e del tessile.

Il Jiangsu è un hub per le aziende straniere ed è tra i principali destinatari degli investimenti diretti esteri che confluiscono in Cina. Circa 60mila foreign companies sono presenti nella provincia, che nel 2020 ha registrato volumi di export pari a 395 miliardi di dollari e importazioni per 235 miliardi di dollari.

In termini di Pil, la provincia del Jiangsu è la seconda in Cina, dopo la locomotiva industriale del Guangdong, raggiungendo un prodotto interno lordo di 1.582 miliardi di dollari nel 2020 e Pil pro capite pari a 17.735 dollari, con crescita del 6,1 per cento nel 2019 e del 3,7 per cento nel 2020.

I principali centri economici nel Jiangsu sono Suzhou, Nanchino, Wuxi, Nantong e Changzhou, mentre i principali settori per contribuzione al Pil sono macchinari industriali, hi-tech, automotive.

La zona di libero scambio del Jiangsu è stata istituita nel 2019 per promuovere l’integrazione e lo sviluppo regionale dell’area; ha lo scopo di facilitare la cooperazione tra le province e le città lungo la cintura economica e il delta del fiume Yangtze.

Per quanto riguarda il tenore di vita, il Jiangsu è considerato una delle province più ricche della Cina, posizionandosi al primo posto nazionale per Pil pro capite.

Human Rights Watch: quella diga è un disastro per i diritti

Il 10 agosto scorso Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto intitolato Underwater: Human Rights Impacts of a China Belt and Road Project in Cambodia. Lo studio dell’organizzazione statunitense per la difesa dei diritti umani documenta la «violazione dei diritti economici, sociali e culturali» per la diga Lower Sesan 2, un importante progetto della nuova via della Seta (Bri), costruito nel nordest della Cambogia dalla compagnia di stato cinese China Huaneng Group. L’impianto idroelettrico, della capacità di 400 megawatt, è destinato a soddisfare le esigenze della Cambogia, permettendo anche l’esportazione di elettricità nel confinante Vietnam. La sua costruzione ha comportato il dislocamento di circa 5mila persone.

Perché è importante

  • Inaugurata nel 2018 – alla confluenza dei fiumi Sesan e Srepok, affluenti del Mekong –, la controversa Lower Sesan 2 è una delle dighe più grandi del continente asiatico. Nelle 137 pagine del suo studio, Hrw accusa le autorità cambogiane e i funzionari della compagnia cinese di aver ignorato le preoccupazioni delle popolazioni indigene espulse, di averle costrette ad accettare compensazioni inadeguate rispetto alle perdite subìte e di aver fornito loro sistemazioni e servizi scadenti nelle aree dove sono state trasferite.

Il contesto

  • Le opere della Bri (Belt and road initiative) vengono in alcuni casi eseguite secondo lo stesso modus operandi con cui sono portati avanti i grandi progetti infrastrutturali in Cina: consultazioni sommarie delle popolazioni interessate, compensazioni, rapida implementazione. Tuttavia secondo Pechino Hrw «ha politicizzato i diritti umani con un rapporto fazioso». Così è intitolato l’intervento di un parlamentare cambogiano pubblicato dal tabloid governativo Global Times. Suos Yara, del Partito del popolo (il partito unico al governo nel paese del sudest asiatico), definisce Hrw «un sottoprodotto della Guerra fredda che non avrebbe avuto più ragione di esistere dopo la fine della Guerra fredda». Suos contesta i metodi d’indagine di Hrw, che avrebbe intervistato «soltanto l’1 per cento delle 5mila persone». Soprattutto – sostiene Suos – il tenore di vita delle popolazioni trasferite sarebbe migliorato, grazie all’accesso all’acqua potabile e all’elettricità e alla possibilità di riprendere le attività agricole.

Questa settimana vi consigliamo tre storie sulla società cinese che cambia:

- The Feminist Rapper Who Refuses to Be Silenced;

- China’s High Pressure Academic Landscape Has a Human Toll;

- Recreating Shanghai of yesteryear with vintage portrait photos.

Weilai vi invita a seguire il futuro della Cina su Domani e vi dà appuntamento alla prossima newsletter.

A presto!

Michelangelo Cocco @classcharacters

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