Il 20 novembre 2018, Robert Lloyd Schellenberg era stato condannato a 15 anni di carcere da un tribunale di Dalian per reati di droga. Arrestato quattro anni prima a Guangzhou (Canton), mentre – secondo l’accusa – stava provando a esportare in Australia 200 chili di metanfetamina, il cittadino canadese aveva fatto subito ricorso. Il nuovo processo si era concluso il 15 gennaio 2019 con una terribile quanto inattesa sentenza: pena di morte, confermata ieri dall’Alta corte della provincia del Lioaning (nel nordovest della Cina). Ora soltanto un atto di clemenza da parte della Corte suprema del popolo potrà cambiare il destino del trentanovenne Schellenberg.

Nessuna indulgenza

La pena capitale è ciò che la giustizia cinese riserva per questo genere di reati. A Schellenberg non è stato riservato quel trattamento di riguardo che spesso ha portato i tribunali cinesi ad essere indulgenti nei confronti degli stranieri, in particolare gli occidentali. Al contrario in secondo grado il pubblico ministero è riuscito a dimostrare il coinvolgimento del canadese in un traffico internazionale di stupefacenti, che ha determinato l’inasprimento della pena. Schellenberg non avrebbe mai potuto immaginare che, pochi giorni dopo aver richiesto il riesame della sentenza di primo grado, il 1° dicembre 2018 all’aeroporto di Vancouver sarebbe stata arrestata una signora di nome Meng Wanzhou, finita di fatto “ostaggio” della giustizia canadese, in attesa dell’estradizione richiesta dagli Stati Uniti, che si è trasformata in un estenuante tira e molla diplomatico che si intreccia con e si alimenta delle tensioni tra Pechino e Washington.

Meng, chief financial officer della telco cinese Huawei, e figlia del suo fondatore Ren Zhengfei (ex militare dell’esercito popolare di liberazione con solidi legami con la leadership di Pechino), era stata arrestata dalle autorità canadesi su richiesta di quelle statunitensi. Washington la accusa di aver violato le sanzioni americane che vietano la fornitura di tecnologia all’Iran. L’arresto di Meng si inquadra nella “guerra” dichiarata dagli Stati Uniti contro Huawei, con le pressioni sui paesi alleati a non adottare la tecnologia e le reti 5G della compagnia cinese.

Ieri il ministro degli Esteri canadese, Marc Garneau ha dichiarato che il suo paese ha «espresso ripetutamente alla Cina la nostra contrarietà a questa punizione crudele e disumana, e continueremo a lavorare con i funzionari cinesi ai più alti livelli per ottenere clemenza per il signor Schellenberg».

L’ambasciatore canadese in Cina, Dominic Barton, ha protestato per la sentenza – che ha definito «arbitraria» – sostenendo esplicitamente che sia la pena di morte inflitta a Schellenberg, sia i processi in corso nella Repubblica popolare contro altri due cittadini canadesi (Michael Spavor e Michael Kovrig), accusati di aver messo in pericolo la sicurezza nazionale della Cina, sono legati al procedimento in corso contro lady Huawei che proprio in questi giorni si sta difendendo davanti alla Corte suprema della British Columbia dalla richiesta di estradizione negli Stati Uniti. E nei prossimi giorni è attesa la sentenza nei confronti di Spavor, uomo d’affari accusato di spionaggio e processato finora a porte chiuse, un procedimento che il primo ministro canadese, Justin Trudeau, ha giudicato «completamente inaccettabile». Dall’arresto di Meng Wanzhou le relazioni di Pechino col Canada – che l’ex premier Zhou Rongji, alla fine degli anni Novanta, definì «il migliore amico della Cina» – sono precipitate.

Intanto i processi ai tre canadesi si svolgono in un una fase in cui lo scontro con l’occidente sta alimentando il nazionalismo in Cina. Ieri il tabloid governativo Global Times sosteneva che la condanna a morte di Schellenberg «gode di un ampio sostegno da parte del popolo cinese, che ritiene che l’indulgenza nei confronti dei trafficanti di droga equivale alla violazione dei diritti di milioni di cittadini cinesi».

Ma è chiaro che su Schellenberg, Spavor e Kovrig aleggia lo spettro di Meng, che il caso dei tre canadesi e quello di Meng potranno sbloccarsi sono con un accordo ai massimi livelli tra Cina e Stati Uniti (e Canada). Il 26 luglio scorso, durante l’incontro a Tianjin tra l’inviata di Biden, la sottosegretaria di Stato Wendy Sherman, e il suo omologo cinese, Xie Feng, quest’ultimo le ha consegnato una lista di condizioni che Pechino ha “dettato” a Washington per la ripresa del dialogo, e tra queste spicca il ritiro della richiesta di estradizione di Meng Wanzhou. E un altro capitolo dello scontro tra la Cina e i paesi della Nato si è aperto sempre ieri in Lituania, dove Pechino ha richiamato in patria il suo ambasciatore, dopo che il paese baltico aveva annunciato l’apertura, entro la fine dell’anno, di un ufficio di rappresentanza commerciale di Taiwan a Vilnius. Un quasi riconoscimento diplomatico di quella che Pechino considera una “provincia ribelle” e che Xi Jinping ha promesso più volte di «riunificare» alla madrepatria.

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