Lo scontro tra Pechino e Washington per la supremazia tecnologica si allarga a nuovi settori. Dopo i microchip e l’intelligenza artificiale, da ieri anche un pezzo dell’industria verde è finito al centro della contesa epocale tra la potenza in ascesa e quella egemone.

A notificare l’apertura del nuovo fronte Joe Biden ha inviato una “colomba”, Janet Yellen, che oggi conclude un viaggio durante il quale ha incontrato alcuni tra i leader più influenti del Partito comunista cinese (Pcc). La segretaria al Tesoro ha recapitato un messaggio chiaro: nei settori delle auto elettriche e dei pannelli solari, la Cina ha un eccesso di capacità produttiva (“overcapacity”) e le sue massicce esportazioni minacciano le compagnie statunitensi in patria e nei mercati internazionali.

La visita di Yellen è partita, giovedì scorso, dal Guangdong, la locomotiva industriale che nel 2023 si è confermata per il trentacinquesimo anno consecutivo la divisione amministrativa con il Pil più elevato del paese (13.000 miliardi di Rmb), nonché cuore pulsante della Greater Bay Area, il cluster di undici metropoli sul quale la “Nuova era” di Xi Jinping ha scommesso per rilanciare la manifattura nazionale.

Una trasformazione in pieno svolgimento che – seppur accompagnata da difficoltà e contraddizioni – ha già dato frutti importanti. Un esempio su tutti: negli ultimi tempi i “tre vecchi” (abbigliamento, mobili ed elettrodomestici), hanno ceduto il podio dei principali settori dell’export cinese ai “tre nuovi” (veicoli elettrici, batterie e pannelli solari).

Restrizioni più severe

Nel capoluogo provinciale Guangzhou Yellen ha discusso per ore con He Lifeng, vice premier e consigliere economico più ascoltato da Xi. L’esponente dell’amministrazione Biden con maggiore consuetudine con i cinesi ha ricordato che Washington vuole con Pechino relazioni economiche “salutari”, ma – ha aggiunto – «impiegheremo i nostri strumenti economici quando necessario e in modo strettamente mirato per proteggere la nostra sicurezza nazionale e quella dei nostri alleati».

Yellen ha stigmatizzato la “overcapacity”, «pratiche economiche sleali» e «azioni coercitive contro le compagnie statunitensi». Su questi problemi, al termine dei colloqui con He, ha annunciato l’avvio di un dialogo congiunto tra i rispettivi ministeri delle Finanze. Ma a Pechino – seconda e ultima tappa della ministra – non l’hanno presa bene. Il premier Li Qiang le ha risposto che «gli Stati Uniti non devono politicizzare le questioni economiche e commerciali o forzare l’interpretazione del concetto di sicurezza nazionale».

Secondo Shi Yinhong, «i paesi occidentali, in larga misura, hanno raggiunto un consenso per imporre restrizioni sempre più severe sulle tecnologie e sui prodotti cinesi legati all’energia verde, e stanno gradualmente varando misure ad hoc». «Si tratta di un’aggiunta sostanziale ai vincoli tecnologici e commerciali statunitensi riassunti nello slogan “cortile stretto, ma con recinzione alta”, che difficilmente verranno invertiti. Nel frattempo, è improbabile anche che la Cina cambi le sue priorità in termini di progresso economico e tecnologico», ha aggiunto il direttore del Centro di studi americani della prestigiosa Università di Pechino (Beida).

Il 29 febbraio scorso il dipartimento del Commercio Usa ha aperto un’inchiesta sui veicoli elettrici cinesi per accertare eventuali pericoli per la “sicurezza nazionale”. «Le politiche della Cina potrebbero inondare il nostro mercato con i suoi veicoli, mettendo a rischio la nostra sicurezza nazionale. Non lascerò che ciò accada sotto i miei occhi», dichiarò per l’occasione Biden. L’amministrazione democratica sta inoltre valutando di aumentare i dazi (attualmente del 27,5 per cento) sull’importazione degli Ev cinesi.

Trecento modelli di Ev

È indubbio che la Cina nel settore dei veicoli elettrici abbia una “overcapacity” (riconosciuta tra l’altro dalla Conferenza di lavoro economico di fine anno del Pcc): gli attuali 90 marchi e circa 300 modelli sono troppi anche per un paese nel quale l’anno scorso si sono venduti 8 milioni di Ev. Ma è altrettanto vero che la politica industriale di Pechino (non solo i sussidi) ha dato vita a produttori di Ev, batterie e pannelli solari più competitivi dei concorrenti statunitensi ed europei.

Anche per questo l’anno scorso l’export di Ev made in China (1,2 milioni di unità) è aumentato del 77 per cento rispetto al 2022.

Mentre il numero due del partito comunista a Pechino discuteva con Yellen, a Parigi il ministro del Commercio Wang Wentao (giovedì e venerdì prossimo a Verona per il bilaterale Italia-Cina) teneva una vera e propria riunione di emergenza con la Camera di commercio cinese nell’Unione europea e i rappresentanti di una decina tra le maggiori compagnie nazionali dei veicoli elettrici, tra cui Byd, Catl, Geely, Saic, Geely.

Il governo e i colossi cinesi dell’automotive (privati e di stato) si stanno coordinando in attesa del verdetto (previsto per novembre, ma con un aumento provvisorio dei dazi d’importazione che potrebbe scattare già a luglio) dell’indagine anti sussidi della Commissione europea sui veicoli elettrici importati dalla Cina.

Wang ha definito “senza fondamento” le accuse di eccesso di capacità produttiva. Secondo il ministro l’avanzata degli Ev cinesi è il frutto di innovazione tecnologica, delle loro catene di fornitura, e della competizione nel mercato cinese, e ha garantito a queste aziende che il governo di Pechino difenderà i loro «legittimi diritti e interessi».

Per depotenziare l’iniziativa voluta dalla Francia e sostenuta da Ursula von der Leyen il governo cinese – mentre nei paesi Ue si moltiplicano i rivenditori di Ev cinesi e in Ungheria si costruisce il primo stabilimento di un produttore cinese nell’Ue, Byd – prevede due mosse: accordi tra compagnie cinesi ed europee nel settore della produzione di veicoli elettrici; rivendicazione del contributo della Cina alla trasformazione verde dell’industria globale.

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