Turmus Ayya pochi giorni fa come Hawara lo scorso 26 febbraio: frange oltranziste di civili israeliani armati che mettono a ferro e fuoco un villaggio palestinese in Cisgiordania. Forze di sicurezza dello stato ebraico che decidono di non intervenire in maniera efficace. Decine di case e abitazioni che subiscono danni o vengono date alle fiamme. E ci scappa il morto in circostanze che i media locali descrivono come «non acclarate».

In entrambi i casi le spedizioni punitive si configurano come rappresaglie per un attentato palestinese: a febbraio quello dello snodo stradale di Hawara, dove furono uccisi due fratelli residenti di un insediamento vicino Nablus. Questa settimana quello del baracchino di hummous di una stazione di sosta presso l’insediamento di Eli: quattro morti.

E testimoniano parimenti il grado sempre più elevato di impunità di cui godono i coloni in Cisgiordania.

«Ci sono giorni in cui dobbiamo affermare ciò che è auto-evidente: lo stato di Israele è una nazione di leggi», ha detto il primo ministro Benjamin Netanyahu, ricalcando le dichiarazioni di quattro mesi fa, quando aveva invitato i cittadini israeliani a «non prendere la legge nelle proprie mani».

Parole che però stridono con la sua scelta di includere, nella coalizione di governo, quella che di fatto è la leadership politica dei gruppi protagonisti delle retate, sdoganando e incoraggiando la loro condotta violenta.

Espansione «su un altro pianeta»

Se non restituisse in tutta la sua drammaticità la condizione di vulnerabilità e subalternità dei palestinesi in Cisgiordania, tanto più sotto un governo di estrema destra, l’episodio di Turmus Ayya, villaggio noto anche per essere popolato da molti palestinesi di cittadinanza americana, non sarebbe il più grave della settimana appena trascorsa. Né per numero di vittime né per le sue implicazioni politiche.

Andiamo in ordine cronologico: domenica, il primo giorno di attività nella settimana israeliana, il gabinetto di governo approva un iter più breve per l’approvazione di nuovi insediamenti nei territori occupati.

Diminuisce il numero di passaggi per cui è necessaria l’approvazione dei vertici politici, cioè i momenti in cui le pressioni della comunità internazionale (leggasi in particolare la Casa Bianca del Presidente Joe Biden, sempre più sul piede di guerra con Netanyahu) possono rallentare l’espansione israeliana.

«Il ritmo dell’espansione israeliana in Cisgiordania sotto questo governo è su un altro pianeta rispetto a quanto avveniva in precedenza», dice Yehuda Shaul del think-tank israeliano Ofek. «In pochi mesi l’esecutivo ha messo in moto il processo di approvazione di 20mila unità abitative, contro le circa 4mila di tutto l’anno scorso», spiega.

E ancora: «Un quarto del totale del budget stanziato dal governo per la costruzione di infrastrutture stradali nei prossimi 5 anni è destinato ad autostrade in Cisgiordania», continua. Viaggiando in direzione Hebron, nella West Bank meridionale, si vedono per esempio i lavori quasi ultimati dello snodo pensato per by-passare i villaggi palestinesi di Al Aroub e Beit Ummar. E facilitare l’accesso a Kyriat Arba e agli altri insediamenti della West Bank meridionale.

Conflitto armato più duro

Ma lunedì l’attualità di guerra si riprende la scena: a Jenin, la cittadina col suo campo profughi da un paio d’anni di nuovo al centro del conflitto con i palestinesi, subisce l’ennesimo raid israeliano.

Ci sono altri sette morti fra i residenti, ma i militanti possono celebrare il successo di un ordigno esplosivo improvvisato che colpisce un veicolo militare israeliano, ferendo dei soldati.

Le operazioni di evacuazione vedono per la prima volta in circa due decenni anche la partecipazione di elicotteri da combattimento. Il ritorno dei mezzi aerei sulla scena trova conferma mercoledì, quando un drone elimina tre militanti palestinesi, sempre a Jenin.

L’escalation insomma viene certificata dal salto di qualità nei mezzi messi in campo dall’esercito israeliano, che ritiene necessario attingere più corposamente al proprio arsenale.

Mercoledì è anche la giornata dell’attentato di Eli, citato in apertura. Come in occasione dell’attentato di Hawara a febbraio, anche questa volta i militanti colpiscono sfruttando la promiscuità delle arterie stradali della Cisgiordania, dove gli israeliani non sono protetti dai sistemi di sicurezza all’avanguardia che isolano gli insediamenti e sono costretti a mischiarsi ai palestinesi.

Come è tradizione all’indomani di ogni attentato nei territori, il governo risponde con il via libera al processo di approvazione di nuove unità abitative. Una prassi concepita come “reazione sionista” agli atti di violenza dei palestinesi. A Eli sorgeranno 1000 nuove case in 3 avamposti sdoganati come “nuovi quartieri” dell’insediamento, ha deciso il governo, e lo collegheranno a quello limitrofo di Shilo.

Tensioni con gli Usa

Gli sviluppi, che coincidevano con la visita in Israele di Barbara Leaf, diplomatica ai vertici della sezione medio oriente del dipartimento di Stato americano, hanno ulteriormente evidenziato la mancanza di considerazione del governo israeliano di fronte alle richieste americane di limitare l’espansione degli insediamenti.

A rasserenare i rapporti bilaterali fra Gerusalemme e Washington non aiuterà certo una dichiarazione di Netanyahu, sempre in settimana, secondo cui il governo avrebbe intenzione di rimettere sul tavolo la controversa riforma della giustizia che ridimensionerebbe il ruolo della Corte suprema.

Lo scontro politico sul disegno di legge, condannato dagli Usa, aveva portato il paese sull’orlo di un conflitto civile la scorsa primavera.

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