«Ci rifiutiamo di odiare, anche se rischiamo la vita»: così dice Daoud della famiglia Nassar, che ha fondato la fattoria Tent of Nations. Il fatto è che lo spazio della società civile palestinese nella West Bank si restringe ogni giorno di più. A Hebron l’insediamento israeliano ha preso forma nel centro della città: circa 800 coloni, protetti da 650 soldati, che a forza di leggi ad hoc, checkpoint e violenza hanno spinto i residenti ad andare via
«Trattenete le energie perché dopo Gaza ci prenderemo anche la Cisgiordania. Quello sì che sarà il momento giusto per fare le foto», grida un uomo con la testa che sporge dal finestrino del furgone bianco di cui è alla guida. Che rallenta la corsa per aver la certezza di essere udito.
Le parole di quell’uomo con la kippah e i riccioli che scendono ai lati del viso rompono non solo il silenzio che governa il centro di Hebron, la zona H2, controllata dalle forze di difesa israeliane. Ma infrange anche le speranze di milioni di palestinesi e di chi crede nella soluzione dei “due popoli, due stati” per risolvere il conflitto.
«È l’autista del pulmino con cui i bambini raggiungono l’asilo», spiega Nadav Weiman, direttore di Breaking the Silence, l’organizzazione di veterani israeliani che lavora per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle conseguenze dell’occupazione militare, conosciuta anche per aver raccolto le testimonianze di ex membri delle Idf che hanno usato gli abitanti di Gaza come scudi umani.
Anche Weiman è un ex membro delle Idf che non esita nel denunciare l’ipocrisia delle forze armate israeliane che, invece di operare per la sicurezza dei cittadini, puntano a mantenere il controllo armato sui palestinesi, per instillare la paura, senza distinzione tra sospettati, colpevoli o innocenti.
Strade vuote
Così si capisce dal discorso che il direttore di Breaking the Silence articola mentre cammina tra le strade, deserte, di Hebron, la seconda città più grande della Cisgiordania, l’unica in cui un insediamento israeliano ha preso forma nel centro: circa 800 coloni, protetti da 650 soldati, che, con la forza di leggi fatte ad hoc, di checkpoint e della violenza, sono riusciti a rendere tanto difficile la vita dei residenti da farli andar via: «In H2, 1.079 delle 3.362 abitazioni sono state abbandonate dalla Seconda intifada, 512 negozi sono stati chiusi per ordini militari e altri 1.000 sono stati chiusi dai proprietari a causa delle restrizioni che impediscono l’accesso ai clienti e ai fornitori», spiega Weiman riferendosi ai dati del 2019.
Perciò oggi che le restrizioni e la violenza sono aumentate dopo il 7 ottobre 2023 attraversare Al Sahlah Street significa vedere la vita che manca, le porte chiuse, le case vuote e decine di soldati armati che sembrano perdere tempo.
Novecento checkpoint
Ma Hebron non è un caso isolato. I soldati in Cisgiordania sono ovunque, chiamati a proteggere i coloni che senza troppe remore danno vita a nuovi insediamenti strategicamente posizionati per accerchiare le comunità palestinesi. In modo che chi ci vive, per paura di essere vessato o di perdere ore per i controlli agli oltre 900 checkpoint, sia sempre meno tentato dall’idea di uscire, per svago, lavoro, studio o necessità di cure poco importa.
A raccontare la realtà di terre soffocate dalla presenza israeliana ci sono i dati e le mappe. Come quelle dell’Ufficio delle Nazioni unite per il coordinamento degli affari umanitari nei territori occupati, che mostrano non solo come le violazioni dei diritti umani dei palestinesi in Cisgiordania siano in aumento da 17 mesi, ma anche che le violenze, le demolizioni delle case, gli sfollati e i morti continuano a crescere.
Nel nord, come conseguenza dell’operazione delle Idf a Jenin e Tulkarm. Ma anche nel resto delle comunità palestinesi. E mostrano come gli insediamenti israeliani, le barriere, i checkpoint appaiano posizionati per restringere sempre più lo spazio fisico e della società civile palestinese.
«Siamo profondamente preoccupati per l’escalation di violenza in Cisgiordania, incluso l’uso di tattiche letali e belliche che sembrano superare gli standard delle forze dell’ordine. Queste e altre pratiche aggravano i bisogni umanitari delle persone», fa sapere a Domani l’Ufficio delle Nazioni unite. «Qui esistere significa resistere», spiega, infatti, Daoud della famiglia Nassar che ha fondato la fattoria Tent of Nations, vicino Betlemme.
Sebbene la terra sia sua da oltre cento anni, sono innumerevoli i tentativi delle autorità israeliane di sottrargliela, sia con leggi che inaspriscono i criteri per dimostrare di essere i legittimi proprietari dei possedimenti – la famiglia Nassar conduce una battaglia legale da 34 anni – sia attraverso i divieti di costruire edifici, sistemi di canalizzazione dell’acqua o di portare elettricità, ma anche a causa delle intimidazioni dei coloni dei cinque insediamenti attorno alla fattoria.
Sperare nel futuro
«Anche se rischiamo la vita ci rifiutiamo di odiare. Speriamo nel futuro», insiste Daoud, prima di indicare il nuovo avamposto israeliano – per ora un caravan circondato da materiale da costruzione – che sorge a 10 passi dal confine della sua proprietà: «L’unico modo che abbiamo per proteggerci sono i volontari internazionali che vengono per aiutare con la fattoria. Ma anche per testimoniare le violenze che subiamo e fungere da deterrente», racconta con le dita strette alla rete che serve da barriera.
Per Nassar, i coloni sono lo strumento che il governo di Netanyahu utilizza per estendersi sempre di più anche in Cisgiordania: un progetto in atto da tempo, che si compie attraverso la frammentazione delle comunità palestinesi. Che ha trovato nel post-7 ottobre lo spazio per essere messo in pratica e a cui l’elezione di Donald Trump sta già dando più forza.
Tanto che le conquiste israeliane sono di giorno in giorno più numerose, a partire dalla formazione di nuovi insediamenti, passando per le acquisizioni di proprietà nei distretti di Gerusalemme est, riconoscibili per la miriade di bandiere con la stella di David che svettano sui tetti, fino ad arrivare alla possibilità di incontrare un mezzo corazzato militare israeliano, utilizzato per trasportare le truppe, fermo nel centro di Hebron.
«Non vedevo una cosa simile dalla Seconda intifada», spiega Weiman allibito: «Siamo assistendo a una gazafication della Cisgiordania e a una hebronization di Gerusalemme», conclude per sottolineare il deterioramento delle condizioni del popolo palestinese, ormai quasi completamente privo di protezione, vista la debolezza sempre più manifesta dell’Autorità nazionale palestinese.
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