Colin Powell non si è mai sentito a casa. La sua vita pubblica è stata segnata dalle incomprensioni più che dalle acclamazioni, dalle frizioni più che dai consensi, dalle divergenze più che dai compromessi. È stato protagonista di scontri leggendari con gli apparati dell’amministrazione quando era Consigliere per la sicurezza nazionale negli anni di Ronald Reagan, e la storia si è ripetuta quando era capo delle forze armate americane, a cavallo fra George H.W. Bush e Bill Clinton.

Quest’ultimo lo ha infine disonorato negandogli la quinta stella da generale perché gli aveva dato i consigli giusti – rimasti inascoltati – sulla sventurata operazione militare in Somalia, che nella visione di Powell doveva somigliare di più all’operazione Desert Storm in Iraq e invece è finita rappresentata nel film Black Hawk Down, impietosa ma realistica riduzione cinematografica di un fallimento.

Una macchia

Negli anni cruciali dell’amministrazione di George W. Bush, quand’era segretario di Stato, ha lottato con il Pentagono di Donald Rumsfeld e con il più ingombrante dei vicepresidenti, Dick Cheney, che di Rumsfeld era stato l’allievo prediletto. I documenti dell’epoca mostrano che Powell aveva dato voce alle sue obiezioni sulla guerra in Iraq, ed era stato sconfitto. Con disciplina militaresca ha portato avanti la causa dell’intervento, fino al discorso al Consiglio di sicurezza dell’Onu in cui ha giustificato la guerra in Iraq esibendo prove che non c’erano. L’ha definita una «macchia» sulla sua carriera, un fantasma che non ha mai smesso di tormentarlo.

Mentre pubblicamente corroborava il teorema che ha portato le truppe americane in Iraq, privatamente confidava i dubbi a un collaboratore: «Mi domando come ci sentiremo se mandiamo mezzo milione di soldati in Iraq e dopo aver setacciato il paese da un capo all’altro non avranno trovato niente». La scuola neoconservatrice prevalente nell’amministrazione Bush non era la sua. Parlando con il segretario degli Esteri britannico nel 2004 ha detto che i neocon che consigliavano Bush erano dei «fucking crazies», non esattamente un complimento, e i suoi scontri con alcuni membri dell’amministrazione hanno assunto i tratti dell’epica nixoniana quando si è scoperto che John Bolton lo faceva spiare.

Non si è sentito a casa nemmeno all’università pubblica di New York quando, studente mediocre che veniva da una famiglia di origine giamaicana nel Bronx, si è trovato per qualche ragione a fare un baccalaureato in geologia.

È stato l’incontro inaspettato con la vita militare a mostrargli la via, come ha raccontato molte volte. La carriera militare «mi avrebbe portato fino a dove mi era concesso dai talenti», ha detto, ripetendo un mantra caro a generazioni di americani che hanno intravisto fra i ranghi e le divise la porta dell’ascensore sociale.

Powell non si è sentito certamente a casa nel suo partito, il Gop, che ha abbandonato con sdegno e in modo definitivo dopo l’assalto a Capitol Hill incitato dal presidente Donald Trump. «Non posso più definirmi un repubblicano. Non sono un affiliato di niente adesso. Sono soltanto un cittadino che nella vita ha votato per i repubblicani e ha votato per i democratici», ha spiegato.

Il sostegno a Obama

Ma i rapporti fra Powell e il Partito repubblicano scricchiolavano da molto tempo. Nella campagna del 2008 ha donato la somma massima consentita dalla legge al candidato repubblicano John McCain, salvo poi dare il suo sostegno a Barack Obama, che con la sua stessa presenza esprimeva quella carica ideale e simbolica che anche Powell aveva incarnato quando era diventato il primo segretario di Stato nero, pur non facendo sopra alla circostanza alcun ricamo retorico o messianico.

La questione razziale è sempre stata al centro del suo discorso, ma in modo marziale, senza affettazione. Prima dell’arringa al Consiglio di sicurezza dell’Onu, l’intervento più significativo nella vita di Powell era stato quello in cui aveva annunciato ciò che non avrebbe fatto: correre per la presidenza degli Stati Uniti alle elezioni del 1996.

Powell aveva guardato in profondità nella sua «anima» e nonostante gli sforzi non aveva trovato la stessa «passione e impegno» per la vita politica che aveva invece animato la sua pluritrentennale carriera militare. Imbarcarsi nella candidatura con il Partito repubblicano sarebbe stato dunque un «atto di disonestà» verso sé stesso e verso il popolo americano, ha spiegato, aggiungendo una coda nemmeno troppo sibillina che non è sfuggita agli interpreti delle dinamiche politiche americane: «Credo di potere aiutare il partito di Lincoln a muoversi di nuovo verso lo spirito di Lincoln». L’allusione è arrivata alle orecchie che volevano intendere.

Era in atto una campagna interna contro la sua candidatura, e il sottotesto era che il partito era troppo bianco, troppo Wasp, troppo incatenato alla sua storia per potersi permettere un candidato di una minoranza, per quanto benedetto da rispetto e stima trasversali. Il passaggio sul presidente dell’emancipazione conteneva forse la vera ragione di un rifiuto che allora ha stupito molti: Powell aveva indici di gradimento impressionanti, che avrebbe mantenuto fino all’alba della presidenza di Bush figlio, che era molto meno popolare di lui.

Era stato il generale della prima guerra del Golfo, operazione ad alta intensità militare ma senza la volontà di occupazione o intenti civilizzatori che aveva permesso a Bush padre di raggiungere il più alto tasso di gradimento mai raggiunto da un presidente americano, capitale politico poi sprecato praticamente con una sola frase: «Read my lips, no new taxes».

Non ci sono molti cognomi che messi prima del nome di un partito indicano una tipologia che si discosta da quella convenzionale. Powell era uno di questi.

I “Reagan democrats” erano gli operai della rust belt che cercavano protezione sotto la tenda repubblicana dopo aver fedelmente votato democratico; i “Rockefeller republican” erano i moderati che seguivano il conservatorismo docile del governatore di New York Nelson Rockefeller. I “Powell republican” erano una specie eterodossa che non si è mai davvero consolidata in una corrente riconoscibile, ma ha definito la persuasione e l’orientamento di chi abbraccia i valori dei conservatori coltivando, in fondo, una riserva.

Powell non si è tuttavia sentito più a casa con i democratici. Aveva riposto le sue speranze in Obama e all’inizio del suo mandato gli ha suggerito di non aumentare il numero dei soldati in Afghanistan, cosa che il presidente ha puntualmente fatto qualche mese dopo.

Gli scontri con Hillary

Con Hillary Clinton, che pure ha preferito a Trump, ha combattuto una battaglia non proprio edificante ai tempi dello scandalo delle email private usate da Clinton quando era segretaria di Stato.

Era stato lui a suggerirle di tenere un canale di comunicazione riservato, e i consiglieri clintoniani non hanno esitato a dire che era stato l’autorevolissimo Powell a consigliare la procedura che l’aveva fatta finire in un inghippo. Lui non l’aveva presa bene – evidentemente – ed è passato al contrattacco, menando colpi come ha sempre fatto quando c’era un contrasto da risolvere o un avversario con cui arrivare al dunque.

Una volta si è dimesso per un’insalata. Doveva spiegare al segretario della Difesa che l’intervento in Somalia necessitava di molte più forze di quelle che stavano disponendo per avere successo – doveva cioè corrispondere ai criteri di quella che sarebbe diventata nota come “dottrina Powell” – ma quello era troppo impegnato a mangiare la sua insalata per ascoltarlo. Si è dimesso di lì a poco, e l’intervento in Somalia è andato come sappiamo.

Colin Powell è morto ieri per le complicazioni causate dal Covid-19. Era malato di cancro. Aveva 84 anni.

© Riproduzione riservata