«Ci si abbraccia di meno anche quando si potrebbe farlo, e se per caso ci si trova a fare una fila davanti a un negozio, viene spontaneo mantenere il distanziamento». Ariel Avriel Sheffer con il suo racconto fa da guida nella Tel Aviv che si schiude. «I ristoranti, i caffè, i pub, hanno riaperto. Io e il mio partner stiamo andando al ristorante con amici che non vedevamo da molto. Due settimane fa, dopo un anno, siamo tornati in piscina. Domenica scorsa abbiamo fatto la nostra prima gita fuori porta; e pensare che nell’ultimo anno abbiamo dovuto rinviare la vacanza che avevamo programmato per almeno tre volte...».

Ora alcune cose sono tornate come prima della pandemia, altre invece proprio no. «Io sono un insegnante di inglese e faccio lezioni private un po’ di persona, un po’ via zoom, perché i genitori dei miei piccoli allievi sono prudenti; io sono vaccinato, i bambini no». Molte cose vanno avanti in digitale, il rientro in ufficio «non è così rigido, c’è chi prosegue nel lavorare da casa»: un ibrido di vecchie abitudini e di nuove. Quella di comprare online, che ha fatto la fortuna di Amazon durante il Covid-19, non è svanita. Intanto «anche se i negozi riaprono, c’è chi non ha superato la crisi e ha smantellato l’attività: il 30 per cento circa delle botteghe». Come la Greg Lane fine arts gallery, una galleria d’arte nota in città: «Ci siamo appena stati per comprare un regalo e abbiamo scoperto che non rialzerà le saracinesche». Continuerà però le vendite via web.

Una svolta a metà

Prima di questa boccata d’aria, gli israeliani avevano passato in lockdown per Covid-19 un totale di 139 giorni. Secondo il database dell’università di Oxford, questo numero è superiore a qualsiasi altra nazione al mondo, mentre la Johns Hopkins university ha trovato in Israele un altro primato: questo autunno era il paese con più nuovi contagi pro capite. Se ora comincia a riaprire è perché è molto avanti con le vaccinazioni. A oggi, oltre la metà della popolazione – cinque milioni di persone, il 55,9 per cento del totale – ha ricevuto il vaccino e quasi un abitante su due – il 46,1 per cento – non solo la prima ma anche la seconda dose. Un numero esiguo a confronto, e cioè 5mila dosi, verrà destinato da Israele agli operatori sanitari della Cisgiordania; per ora ne sono arrivate 2mila. La rapidità nella vaccinazione segna un brusco cambio di passo, che Yuval Noah Harari, lo scrittore e storico israeliano, paragona alla situazione nel Regno Unito. Harari scrive che entrambi i paesi hanno commesso gravi errori all’esordio della pandemia; la Gran Bretagna è quarta al mondo per numero di decessi in rapporto alla popolazione, Israele è settima per numero di contagi. «Per uscire da questo disastro il paese ha stretto un patto “vaccini in cambio di dati” con la multinazionale americana Pfizer». L’accordo con l’azienda farmaceutica prevede che entro fine marzo tutti gli israeliani dai 16 anni in su siano stati vaccinati; hanno cominciato gli operatori sanitari e gli ultrasessantenni, mano a mano anche i più giovani hanno ricevuto il vaccino. Una rapidità che altri paesi sognano, e che è dovuta in parte al prezzo che questo governo è stato disposto a pagare (più del doppio o il triplo che in Usa e in Ue, dice il Washington Post, mentre alla Knesset risulta che il governo abbia già pagato 660 milioni alle aziende farmaceutiche). Un fattore determinante è anche il consenso a fornire i dati sanitari dell’intera popolazione a Pfizer; in sostanza l’intero paese è un caso di studio sull’andamento delle vaccinazioni. Il governo precisa che vengono forniti solo dati aggregati, ma le perplessità rimangono; Harari ad esempio scrive che «concedere un quantitativo così ampio di dati di valore solleva perplessità sia sul fronte della privacy che del monopolio dei dati, in mano a una sola azienda. Dimostra inoltre che i dati dei cittadini sono oggi uno dei più preziosi asset statali».

Passaporto ed elezioni

Il ministro della Salute israeliano ha annunciato che dopo due settimane dall’iniezione della seconda dose, la mortalità per Covid-19 cala del 98,9 per cento, l’ospedalizzazione del 98,9, le forme gravi della malattia del 99,2, rispetto a chi non ha ricevuto il vaccino. Proprio come Boris Johnson, anche Benjamin Netanyahu punta tutto sulle vaccinazioni, riapre in fretta il paese e spera che alle elezioni parlamentari del 23 marzo, la quarta tornata elettorale in soli due anni, tutto ciò attutirà i fallimenti precedenti. Perciò non solo il paese riapre, ma nonostante vaccinarsi non sia obbligatorio, il sistema appena introdotto del “passaporto verde digitale” costituisce un incentivo, se non un obbligo di fatto. Dal 7 marzo hanno riaperto imprese, ristoranti, alberghi, palestre, e ci si può spostare all’interno del paese; ma tutta questa libertà è condizionata dal possesso di un passaporto che certifica che si è vaccinati o guariti dal Covid-19. «Posso andare al ristorante, ma se voglio stare dentro e non all’aperto, devo esibire il mio codice QR», dice Ariel Avriel Sheffer. Vale anche per un lavoratore che voglia entrare in mensa. Israele riapre, sì, ma a chi ha il codice scaricato sul cellulare. Le richieste per il documento “libera tutti” sono state così massicce che il sito del governo all’inizio si è bloccato e che c’è già chi prova a smerciarne di falsi online. Lo scopo dichiarato del passaporto è incentivare le vaccinazioni, ma il confine con l’obbligo in questo caso è labile; a inizio marzo il parlamento ha autorizzato lo stato a passare ai comuni i nominativi di chi ha rifiutato il vaccino, tanto che sui giornali israeliani si è parlato di “caccia alle streghe”. La Confindustria locale ha anche commissionato un parere legale per capire se in Israele un’impresa può licenziare chi non si vaccina. L’esito? Positivo.

Fragile normalità

«Al momento le vaccinazioni procedono rapide, ma bisogna vedere cosa succederà quando si arriverà al nocciolo duro di persone che il vaccino non lo vogliono», dice Assaf Patir, economista alla Hebrew University. Un sondaggio pubblicato in Israele da Channel 12 dice che un quarto degli israeliani non ha alcuna intenzione di farsi vaccinare; fra questi, il 41 per cento teme gli effetti collaterali. Questo è soltanto uno dei punti interrogativi sul ritorno effettivo alla normalità. Patir nota che «sicuramente chi vaccina prima si troverà avanti nella ripresa economica rispetto a chi va lento, ma siamo comunque interdipendenti gli uni dagli altri: se il turismo non riparte, se la domanda bassa negli altri paesi frena le nostre esportazioni, ne risentiremo anche noi». Proprio l’impennata nell’export di diamanti, che sono un bene rifugio, hanno consentito al paese di contenere al 2,4 per cento il calo del Pil nel 2020. Nel picco dell’epidemia un israeliano su tre era senza impiego e «non basta riaprire perché il mercato del lavoro torni alla normalità». Patir lamenta che il governo abbia preso misure «non abbastanza mirate, bisognava sostenere maggiormente i settori più colpiti dalle chiusure. Molti dirigenti del Tesoro si sono dimessi proprio perché non ascoltati a sufficienza». Alcuni locali sono andati in bancarotta e non riapriranno. I ristoratori che hanno alzato le saracinesche si sono sentiti dire da molti ex dipendenti che finché dura l’indennità di disoccupazione (fino a giugno) non rientreranno. Online continua una parte delle attività: «Questo semestre continuiamo a fare lezione online, e anche l’anno prossimo penso che userò zoom molto più che prima del Covid», dice Patir. Sua madre e sua sorella venerdì sono andate al primo concerto dopo molto tempo. La vita torna quella di prima? Rina Corem, pensionata, vive a Beer Tuvya e dice che «vedo gli amici, faccio pilates, ma mi mancano i miei cari». Corem ha parte della famiglia tra Berlino e New York; vorrebbe andare a trovare le nipotine a Manhattan per la Pasqua ebraica, ma «andare all’estero è ancora così complicato, e pure rientrare». Da martedì si può atterrare da qualsiasi paese, per votare, ma comunque in non più di 3mila persone al giorno. «Se arrivano varianti dall’estero, rischiamo di mandare al diavolo i miracoli fatti con le vaccinazioni», dice il ministro della Salute. La normalità pare appunto un miracolo.

© Riproduzione riservata