L’amministrazione Biden pensa al boicottaggio delle prossime olimpiadi invernali di Pechino, accusata di «genocidio» degli uiguri, la più numerosa tra le minoranze etniche del Xinjiang?

Nei cinema della Repubblica popolare cinese intanto sbarca Le ali delle canzoni, che celebra la «varietà culturale» della regione del nord-ovest della paese. I giovani protagonisti del musical – uno uiguro, uno han e un kazako – formano una band che attraversa a cavallo il deserto, le praterie e i villaggi del Xinjiang dove, come d’incanto, uiguri e han sono «uniti nella diversità», come i semi delle melagrane che vi crescono rigogliose. La risposta dei botteghini è stata, finora, un flop. Forse anche perché in Cina tutti sanno che la regione autonoma uigura del Xinjiang (Xuar), per quanto la propaganda ne esalti la pacificazione attraverso il folklore, resta un’area conflittuale.

Senza le olimpiadi

Il ministro degli Esteri, Wang Yi, ha respinto le accuse di violazione dei diritti umani, dicendo che «non potrebbero essere più assurde». Tuttavia su questo punto il Partito comunista cinese (Pcc) sta subendo pressioni sempre più intense da parte della comunità internazionale. Martedì scorso, il Dipartimento di stato degli Stati Uniti ha fatto sapere che Washington «discuterà certamente», assieme «ai nostri alleati e partner», l’ipotesi di boicottare Pechino 2022, mentre sui grandi media statunitensi si susseguono gli appelli di politici e intellettuali contro i giochi e gli inviti alle corporation a stelle e strisce a disinvestire dalla Cina. Le Nazioni unite hanno annunciato che l’Alto commissario per i diritti umani sta negoziando con Pechino «la possibilità di effettuare una visita in Cina, senza alcuna limitazione d’accesso» a testimoni o aree della Xuar, per verificare i terribili sospetti (sparizioni, stupri, sterilizzazioni forzate) avanzati contro le autorità cinesi da uiguri in esilio all’estero e organizzazioni per i diritti dell’uomo.

Il Xinjiang si è trasformato da una questione di nicchia, della quale per decenni si era occupato un manipolo di accademici e attivisti, in uno dei terreni di scontro tra Cina e occidente. Per capire come si è arrivati a quelle che Pechino definisce «strutture di avviamento professionale» dove – secondo testimonianze che le Nazioni unite hanno definito «credibili» – sono stati rinchiusi fino a un milione di musulmani, e alle accuse di «genocidio» è necessario ripercorrere la storia recente di questa enorme regione (un sesto dell’intero paese), che ha goduto di un’indipendenza di fatto tra la caduta dell’Impero nel 1911 e la proclamazione della Repubblica popolare cinese nel 1949. Nel 1954, il Partito inviò centinaia di migliaia di paramilitari dei Corpi di produzione e costruzione (bīngtuán) a presidiarne i confini, con otto stati. La repressione dell’islam ha inizio nel 1958, con la Campagna per la riforma del sistema religioso, proseguendo con maggiore impeto durante la Rivoluzione culturale (1966-1976). Alle aperture di Deng Xiaoping si è accompagnata la rifioritura delle tradizioni locali e la costruzione di moschee. Fino alla metà degli anni Novanta, la Xuar era davvero “autonoma”. È in quel contesto che è riaffiorata l’utopia della rinascita di quella Repubblica islamica del Turkestan orientale con capitale nella città-oasi di Kashgar che ha avuto vita breve (novembre 1933 – aprile 1934) ma resta un mito degli indipendentisti.

Una nuova demografia

Favorite dagli incentivi governativi, sono state le ondate migratorie di cinesi han a far cambiare volto alla Xuar: nel 1949 erano il sei per cento, saliti al 38 per cento nel 2011, ultimo anno per il quale sono disponibili dati ufficiali, da allora secretati. Si stima che oggi gli han abbiano superato abbondantemente la maggioranza assoluta della popolazione.

Secondo i piani del Partito, il desiderio di riscatto dei coloni interni, arrivati dalle aree più povere della Cina, avrebbe contribuito allo sviluppo economico del Xinjiang e il benessere avrebbe a sua volta spento le fiammate del separatismo. La storia però ha preso un’altra strada. Dalla seconda metà degli anni Novanta, gli attacchi contro poliziotti, coloni e “collaborazionisti” sono diventati sempre più frequenti. In queste rivolte le questioni sociali (contenziosi sui terreni, denunce di discriminazioni nell’attribuzione di impieghi statali) si sono spesso intrecciate alle rimostranze per le pesanti limitazioni all’insegnamento dello uiguro (lingua turca, che per la scrittura utilizza l’alfabeto arabo) e del culto religioso, con la persecuzione degli imam non nominati dalle autorità, il divieto d’accesso alle moschee per i minorenni e le campagne di “de-radicalizzazione”.

Il 5 luglio 2009, Urumqi è stata sconvolta da un corteo di uiguri che colpivano ogni han che incontravano lungo il loro percorso nel centro del capoluogo regionale: i morti sono stati 197, i feriti oltre 1.700. Dopo quella strage, Pechino ha ottenuto l’inserimento del Movimento islamico del Turkestan orientale (Etim) nella lista nera delle Nazioni unite: le rivolte e l’indipendentismo uiguro sono stati così equiparati al terrorismo.

Il primo marzo 2014, un commando di dieci uiguri armati di coltelli si è avventato sui pendolari in fila nella stazione ferroviaria di Kunming (il capoluogo dello Yunnan), uccidendo 31 civili e ferendo 143 persone. Quel massacro è stato presentato come l’11 settembre della Cina. Il mese successivo, Xi Jinping ha fatto la sua prima visita presidenziale nel Xinjiang, che ha definito «la linea del fronte contro il terrorismo». Xi ha ordinato di «reprimere con grande energia il terrorismo e il separatismo per salvaguardare la sicurezza nazionale». È allora che ha preso corpo il giro di vite divenuto oggetto di scrutinio internazionale.

Obiettivo assimilazione

Oggi gli uiguri nel Xinjiang sono 12,7 milioni. Nei loro confronti il Partito ha cambiato strategia. Lo sviluppo economico non è più considerato sufficiente per risolvere la “questione delle minoranze”. Le politiche di affirmative action sono state soppiantate da un approccio che cerca esplicitamente la “fusione”, la “standardizzazione” dei gruppi etnici con una concezione sovra-nazionale dello “stato-nazione” cinese (zhōngguó mínzú), attraverso l’eliminazione di diritti e obblighi differenziati, favorendo la mobilità all’interno del paese di lavoratori e studenti dei gruppi etnici minoritari.

I timori di Pechino per la diffusione dell’estremismo non sono infondati. Da anni gli stessi uiguri denunciano la diffusione del wahhabismo nella loro società. Centinaia di uiguri hanno combattuto nelle milizie jihadiste in Afghanistan, in Iraq e in Siria, nella speranza di poter importare un giorno la guerra santa in Cina. Ma con Xi Jinping la lotta all’islam politico ha compiuto un salto di qualità, puntando non più soltanto a reprimere l’azione di gruppi indipendentisti e islamisti, ma anche alla fedeltà politica-ideologica degli uiguri, e al controllo della popolazione attraverso le nuove tecnologie, tra le quali quelle di videosorveglianza.

E, dopo l’afflusso di coloni han, ora è la nuova Via della seta a rivoluzionare nuovamente la Xuar: porta d’accesso all’Asia centrale grazie a nuovi collegamenti come l’aeroporto internazionale di Urumqi, accoglierà il petrolio in arrivo dal Golfo persico, quando sarà completato l’oleodotto che, dal porto di Gwadar, attraverserà il Pakistan da sud a nord. Nel Xinjiang gli investimenti infrastrutturali nel 2020 sono cresciuti del 20 per cento, quelli in capitale fisso del 16,2 per cento e quelli nel settore primario sono raddoppiati.

Le nuove generazioni di uiguri – un popolo che vive ancora concentrato soprattutto nei villaggi, legato alla terra e alle sue tradizioni culturali – sono istruite ed emancipate. In risposta ai profondi cambiamenti in corso nella regione, una parte dei giovani uiguri si è integrata con la società han, nei circuiti economici di città come Urumqi, che somigliano sempre più alle metropoli cinesi. Un’altra ha scelto la via dell’esilio. E negli Stati Uniti, in Turchia e in Germania le comunità uigure che alimentano un’azione di lobbying anti-Pcc sui rispettivi parlamenti sono sempre più attive e rumorose.

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