È un clima radicalmente mutato quello in cui Pechino si appresta ad accogliere il mese prossimo i rappresentanti di 90 paesi per il terzo forum sulla Belt and Road Initiative (Bri), che celebrerà il decennale della cosiddetta nuova via della Seta. Quando, alla fine del 2013, Xi Jinping avanzò l’idea di avvicinare la Cina all’Europa costruendo una rete di infrastrutture attraverso l’Asia centrale e l’Oceano indiano, quella visione ammantata di richiami ad antiche carovane ed esploratori leggendari venne accolta nel mondo con simpatia. Con il Pivot to Asia lanciato due anni prima, l’America di Barack Obama aveva appena iniziato a spostare la sua attenzione dal Medio Oriente all’Asia-Pacifico, mentre a Pechino i contorni della svolta autoritaria che il neoeletto segretario avrebbe impresso alla Cina e al suo partito comunista erano ancora sfumati. In Europa la Bri godeva di buona stampa, e aveva perfino sedotto un membro del G7, l’Italia governata dal Conte I, che sottoscrisse un “memorandum d’intesa sulla collaborazione nell’ambito della via della Seta economica e dell’iniziativa per una via della Seta marittima del XXI secolo”. Ironia della storia, i festeggiamenti per i dieci anni della Bri coincidono con il voltafaccia di Roma, dove l’esecutivo Meloni ha annunciato che ritirerà il riconoscimento politico che il governo giallo-verde aveva accordato alla Bri nel 2019.

Il fatto è che anche per la nuova via della Seta - come per Taiwan e per i microchip - è scattata la trappola della nuova Guerra fredda, con l’amministrazione Biden che risponde alle iniziative cinesi un po’ come come George Kennan, nel suo saggio del 1947 The Sources of Soviet Conduct, raccomandava di contrastare la «pressione sovietica contro le libere istituzioni del mondo occidentale»: attraverso «l’applicazione abile e vigile di controforza in una serie di punti geografici e politici in costante cambiamento, corrispondenti ai cambiamenti e alle manovre della politica sovietica».

Il piano rivale del G7

A questo schema risponde la Partnership for Global Infrastructure and Investment (Pgii) svelata dal G7 al vertice in Baviera del giugno dell’anno scorso. La Pgii va oltre le “infrastrutture umane” (eguaglianza di genere, sicurezza sanitaria etc.) del piano Build Back Better World varato da Biden e dai sette grandi nel giugno 2021, per sfidare la Cina sul terreno delle grandi opere: ferrovie, strade, centrali elettriche, in Asia, Medio Oriente e Africa. Al vertice del G20 di New Delhi è stato presentato il suo secondo progetto, il Corridoio economico India-Medio Oriente-Europa (Imec), un insieme di collegamenti, ferroviari e marittimi, che dovrebbe ridurre del 40 per cento i tempi di transito e del 30 per cento i costi dei trasporti India-Europa, via penisola arabica, Giordania e Israele, e bypassando il Canale di Suez.

Eppure, malgrado l’arrivo della concorrenza del G7 e il nuovo quadro geopolitico, dopo la parentesi della pandemia, la Bri, alla quale hanno aderito 152 paesi e 32 organizzazioni internazionali, ha ripreso la sua avanzata. Secondo i dati pubblicati dall’Università Fudan di Shanghai, gli investimenti cumulativi ammontano a oltre 1.000 miliardi di dollari. Nei primi sei mesi del 2023, sono stati siglati oltre cento accordi, per un valore complessivo di 43,3 miliardi di dollari (+23,7 per cento rispetto allo stesso periodo del 2022).

Uno dei punti di forza della Bri è la sua flessibilità. Non è stata concepita come un piano con destinatari e tempi definiti, quanto piuttosto come un brand da appiccicare ad accordi funzionali alle seguenti strategie di lungo periodo: ridurre l’eccesso di capacità produttiva delle aziende di stato proiettandole sui mercati globali; accrescere l’influenza internazionale di Pechino; appianare i gap di sviluppo interni facendo crescere le aree della Cina più lontane dalla costa. Una visione strategica, un elemento centrale della politica estera del paese, in quanto tale inserito nel 2017 nello statuto del partito comunista.

“Diplomazia del debito”

E la nuova via della Seta ha intercettato un bisogno diffuso e urgente. Secondo le Nazioni Unite, l’arretratezza delle infrastrutture è tra i principali fattori che frenano la crescita dei 46 paesi meno sviluppati del pianeta (tutti in Asia e Africa), dove vivono 1,1 miliardi di persone. Un rapporto pubblicato dalla Asian Development Bank del luglio scorso (Infrastructure Spillover Impacts in Developing Asia), sottolinea che «le infrastrutture di qualità possono dare alle economie dell’Asia in via di sviluppo una spinta decisiva rafforzando la crescita e riducendo la povertà, soprattutto durante i periodi di crisi economica».

Secondo Rhodium Group, nel 2020 e nel 2021, le parti hanno iniziato a rinegoziare i termini di prestito di 40 accordi targati Bri (+70 per cento rispetto al biennio, pre-pandemico, 2018-2019). Per i suoi detrattori la Bri è sinonimo di “diplomazia del debito” e la stessa Cina, il primo prestatore bilaterale del pianeta, rischierebbe di finire vittima di colossali crediti deteriorati, quelli concessi dalle sue banche di stato senza pretendere in cambio condizionali di politica economica e che i paesi poveri non sarebbero in grado di restituire. Un mito sfatato da una ricerca del think tank britannico Chatham House (Debunking the Myth of ‘Debt-trap Diplomacy’), ma comunque duro a morire, nonostante i dati dicano che - salvo eccezioni, come, ad esempio, il Laos - i paesi in via di sviluppo fortemente indebitati sono esposti nei confronti delle istituzioni finanziarie del Washington consensus molto più che di quelle cinesi.

E, mentre si fa un gran parlare della competizione hi-tech (nella quale la Cina forse può permettersi di rimanere leggermente indietro rispetto alle economie avanzate senza compromettere il suo sviluppo) bisognerebbe prestare maggiore attenzione al ruolo delle infrastrutture, che negli ultimi anni hanno permesso a Pechino di espandere i suoi commerci, la sua influenza, le sue cooperazioni di sicurezza.

Ricostruire la Siria

Il caso del Medio Oriente è emblematico. L’interscambio Cina-paesi arabi ha superato i 431 miliardi di dollari nel 2022, il doppio rispetto a dieci anni prima. Pechino importa dalla regione materie prime energetiche e vi investe in centrali solari, logistica, trasporti. Il 10 dicembre scorso Xi è volato in Arabia Saudita per partecipare al primo vertice tra la Cina e il Consiglio di cooperazione del Golfo, la primavera scorsa Pechino ha svolto un ruolo fondamentale nella normalizzazione delle relazioni tra Riyadh e Tehran, infine ha presentato un piano che pretende di mettere d’accordo perfino israeliani e palestinesi. In questi giorni è a Pechino Bashar al-Assad. Dopo un decennio di guerra civile, la Siria è entrata ufficialmente nella Bri l’anno scorso. Pechino con il suo veto ha bloccato per otto volte risoluzioni di condanna al Palazzo di vetro del regime di Damasco. E ora le aziende cinesi sono pronte a fare la parte del leone nella ricostruzione del paese, semidistrutto.

Da quando Xi un anno fa ha ripreso le sue attività diplomatiche interrotte per il Covi-19, la Cina ha ricevuto una decina di leader africani che si sono impegnati a rafforzare i partenariati con Pechino. Il più grande mercato mondiale di veicoli elettrici e il produttore numero uno di batterie agli ioni di litio in Africa è a caccia di metalli come litio, cobalto e nichel. I principali investimenti nel continente nero quest’anno includono l’acquisizione da parte di Hainan Mining di una partecipazione di maggioranza in una miniera di litio in Mali, l’inaugurazione da parte di Huayou Cobalt di un impianto di lavorazione del litio del valore di oltre 300 milioni di dollari nello Zimbabwe e una joint venture Cina-Namibia da 94 milioni di dollari per sviluppare un impianto eolico.

In definitiva, anche se è ormai osteggiata da Stati Uniti ed Europa, la nuova via della Seta può contare sulle audience ricettive delle élite dei paesi in via di sviluppo, le quali a loro volta non vedono la Pgii del G7 e la Global Gateway dell’Unione Europea come rivali della Belt and Road Initiative, ma come iniziative complementari sulle quali pure poter fare affidamento.

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